
La priorità per ogni investitore e risparmiatore è la pianificazione di una strategia di investimento. Pianificare presuppone l’analisi di fattori diversi che spesso sfuggono, non per superficialità, ma per mancata applicazione costante alla materia e, di conseguenza, inconsapevolezza di dinamiche che generano fenomeni o scelte politiche
di Luca Lippi
Non capire i veri motivi economici di quello che sta succedendo, limitandosi alla visione superficiale comunicata da molti giornali, può avere effetti gravissimi sulle scelte strategiche di investimento, tant’è che il panico prende il sopravvento e si determinano crolli degl’indici che non hanno alcuna ragione nelle dimensioni e nei tempi.
LE RAGIONI ECONOMICHE
Il neo presidente degli Stati Uniti è sicuramente goffo – lo abbiamo già conosciuto nelle sue manifestazioni pubbliche – ma non è né superficiale né sprovveduto. Le sue scelte sono “obbligate” e in questo articolo spieghiamo perché. Di seguito scaveremo alla ricerca dei motivi che hanno costretto l’amministrazione Trump a “dichiarare una guerra commerciale”.
IL DOLLARO E LA SUA FUNZIONE
Il Dollaro ha avuto nel tempo sempre più la funzione di valuta di riserva globale. L’inizio della sua attuale funzione parte dal 1940, gli Stati Uniti erano la più grande potenza economica al mondo rappresentando oltre il 40 per cento dell’economia globale. Per espandere ulteriormente la loro influenza in tutto il mondo, l’utilizzo del Dollaro ha ricoperto un ruolo fondamentale garantendo un vantaggio economico e geopolitico. Il mantenimento di questi vantaggi ha costretto gli USA a costruire un sistema economico e monetario orientato al mantenimento, soprattutto, del Dollaro allo status di valuta di riserva mondiale. I vantaggi di questo status sono, banalmente, possedere una valuta di riferimento nel commercio internazionale. Il commercio mondiale del petrolio è quasi interamente denominato in Dollari, i principali produttori di oro nero – Arabia Saudita e gli altri membri dell’OPEC – vendono il greggio in Dollari americani ad altri Paesi al di fuori degli Stati Uniti. La stessa dinamica vale per gas naturale, carbone e per settori strategici come quello dei semiconduttori e altre materie prime critiche – rame, litio, cobalto e grafite -.
Il fatto che il Dollaro sia richiesto per tutti questi scambi commerciali, ne mantiene sempre alta la domanda, permettendo agli USA di stampare grandi quantità di nuova moneta senza subire pressioni inflazionistiche. Il potere geopolitico che ne scaturisce è il controllo sul sistema finanziario globale, influenzando le politiche di altri Paesi imponendo sanzioni, orientando i tassi di interesse e regolando l’accesso ai mercati internazionali.
ENTRANO MERCI ED ESCONO DOLLARI
Molti Paesi emettono debito pubblico in Dollari. Argentina, Turchia, Colombia e perfino Ungheria si finanziano spesso in Dollari sui mercati internazionali. Inoltre, diverse valute al mondo sono agganciate al Dollaro con un cambio fisso come il Dollaro di Hong Kong, il Riyal saudita e il Dirham degli Emirati. Per garantire che questo sistema continui a funzionare, gli USA devono trovare un modo per portare all’estero tutti questi Dollari e farli circolare a livello globale. Lo fanno importando beni e servizi da tutto il mondo pagando in Dollari, costringendoli a mantenere un deficit commerciale costante, comprando di più di quello che vendono.
In estrema sintesi, entrano merci ed escono Dollari. Ma questo sistema genera tre grossi problemi: mantenere un import costantemente superiore all’export – che è un sistema nato negli anni quaranta, quando gli USA avevano la posizione di superpotenza nell’economia globale –. Ma oggi la globalizzazione ha eroso il primato USA di detentrice del 40 per cento dell’economia globale – crescita di altre economie come quella cinese – riducendo il peso nell’economia globale USA di quasi il 20 per cento.
La situazione attuale è che se prima gli USA rappresentavano il 40 per cento dell’economia globale e dovevano fornire Dollari al 60 per cento del resto del mondo, ora devono fornire Dollari all’80 per cento del mondo aumentando sempre di più l’import di merci e servizi.
LA DELOCALIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE
Questa dinamica ha generato una crescente concorrenza estera per le aziende locali che, per rimanere competitive ai prodotti a basso costo provenienti dall’estero, hanno delocalizzato la produzione in Paesi come la Cina e il Messico dove i salari sono più bassi. L’industria automobilistica ha abbandonato aree come Detroit e colossi tecnologici come Apple producono gran parte dei loro dispositivi in Cina.
Il risultato è un progressivo indebolimento della base manifatturiera statunitense con gravi conseguenze su occupazione, salari e stabilità sociale. Questo ha spinto il governo a stimolare l’economia con sussidi, investimenti e riduzioni fiscali, contribuendo all’aumento del debito a livelli record, debito che con i tassi alti, ha portato il costo del suo mantenimento ad accelerare la sua crescita. Se questa situazione dovesse aggravarsi, sempre più Paesi potrebbero cercare alternative al Dollaro che non garantirebbe più la sicurezza e la stabilità necessaria.
LA “GUERRA” COMMERCIALE
Quanto sopra, è necessario a rimodulare ogni punto vista, deviando dalla “narrazione ideologica” verso una valutazione economica e politica meno superficiale di quella che viene definita “guerra”. Nel 2018, durante il primo mandati di Trump, gli USA avevano introdotto i primi dazi verso la Cina, gli stessi dazi confermati e incrementati dal successore – Biden -. Ora, con il secondo mandato di Trump, il problema è diventato una priorità assoluta. L’istituzione di dazi altissimi e in brevissimo tempo verso tutti principali partners commerciali.

I dazi sono uno strumento che permette di affrontare in modo specifico i tre problemi, di cui abbiamo fatto menzione sopra, che affliggono gli Stati Uniti. Tuttavia, i dazi da soli non bastano! I dazi riducono la competitività dei prodotti e servizi dall’estero, l’obiettivo è la riduzione dell’import e arrestare il peggioramento della bilancia commerciale, in questo modo, nel tempo, si favorirà la produzione interna. Le aziende che fino ad oggi hanno sfruttato i bassi salari di Messico e Cina, saranno incentivate a riportare la produzione su territorio americano. Gli effetti sono evidenti da subito, Apple ha annunciato 500 miliardi di investimenti e 20 mila posti di lavoro. Eli Lilly ha annunciato la costruzione di quattro nuovi impianti di produzione negli Stati Uniti e un investimento iniziale di 27 miliardi di Dollari. Anche Pfizer sta considerando di riportare la produzione nei Sati Uniti.
Ad oggi si stimano circa tre miliardi di Dollari di nuovi investimenti nell’economia americana. Non si deve sottovalutare che, di fatto, i dazi sono una tassa sulle importazioni, e hanno anche lo scopo di rastrellare liquidità per compensare i tagli fiscali promessi e rilanciare la manifattura domestica. Le entrate fiscali generate dai dazi assieme alla riduzione delle spese inefficienti tramite l’US DOGE Service, hanno l’obiettivo di risolvere il problema del deficit fuori controllo.
I DAZI DA SOLI NON SONO SUFFICIENTI
Non riducono il problema alla radice se il Dollaro rimane troppo forte – di fatto lavorando contro i dazi -. Un Dollaro forte rende i prodotti americani più cari all’estero e le merci straniere più convenienti per i consumatori americani. Per questo motivo, oltre i dazi, agli Stati Uniti seve anche un Dollaro più debole, ma finche la FED mantiene i tassi elevati il Dollaro continuerà a mantenere la sua forza. L’unica alternativa al braccio di ferro tra Trump e Powell è provocare con uno shock il rallentamento dell’economia americana contraendo il PIL e facendo aumentare la disoccupazione, costringendo la FED a un forte taglio dei tassi e raggiungere il punto di caduta necessario e sufficiente a Trump per fondare una crescita economica di lungo termine.
NON SI ESCLUDONO DIFFICOLTÀ ECONOMICHE DI BREVE TERMINE
Dazi per ridurre l’import e incentivare la produzione interna; tagli fiscali per rendere più competitive le imprese americane; tassi bassi per stimolare investimenti, occupazione e crescita. Il governo statunitense non esclude difficoltà economiche di breve termine per raggiungere gli obiettivi. I mercati finanziari, con la loro fibrillazione isterica, non hanno alcuna voce in capitolo in questo momento per Trump. Il focus di Trump è di lungo periodo, quello dei mercati è quasi quotidiano. La differenza che corre tra gli interessi politici e quelli finanziari è enorme: i primi sono pianificazioni strutturali che richiedono tempi tecnici di attuazione e entrata a regime, l’interesse dei mercati è puramente economico, totalmente disinteressato a qualsiasi cosa procuri un rallentamento alla sua voracità. Guerre, regimi, deterioramenti sociali non sono questioni che lo riguardano, il mercato vuole solo linearità per navigare più speditamente possibile verso il suo scopo che è quello di creare ricchezza per alimentare il suo sostentamento, a ogni costo.
COSA DEVE FARE IL RISPARMIATORE
Prima di tutto deve capire su quale mercato vuole investire. Considerando le reali opportunità e la propensione al rischio. È come per chi volesse decidere di acquistare un’auto ed è attratto dalla solidità di un noto marchio tedesco o la convenienza economica dei marchi asiatici. I rischi, che sono sempre presenti in ogni investimento, sono minori investendo nel marchio tedesco a lungo termine e molto elevati acquistando un marchio asiatico (scarse forniture dei ricambi, costi doganali dei ricambi che ne aumentano il prezzo a scapito della qualità, scarsa capacità di mantenere il prezzo di mercato).
Per fare un esempio: visto che da più parti da almeno un decennio si parla della prodigiosa crescita della Cina, chiunque avesse investito su questo mercato nel 2015 oggi avrebbe semplicemente recuperato il suo capitale (ovviamente svalutato). Stessa dinamica se avesse investito sul mercato europeo. Bisogna sempre tenere ben presente il costo/opportunità di qualsiasi investimento.
Nella situazione attuale bisogna scegliere se investire sull’azionario europeo per non avere il rischio cambio ma che è deficitaria per un’economia sottostante debole per questioni strutturali (settore energetico, situazione geopolitica, la mancanza di innovazione tecnologica e di materie prime). Oppure investire in Cina con un mercato finanziario con una pessima capacità di rendimento e un indice demografico tra i più bassi del mondo. Oppure investire sugli Stati Uniti che stanno mettendo al centro del proprio programma economico l’incentivazione delle aziende americane, seppure con tutte le difficoltà che abbiamo appena visto.
Gli utili delle aziende e il prezzo delle loro azioni sono correlati al cento per cento nel lungo termine. L’obiettivo di lungo termine dell’amministrazione Trump è proprio stimolare gli utili delle aziende americane.