
L’immagine della Cina come gigante economico inarrestabile è da cancellare. Non detterà regole e non è in grado di essere attore globale. Il suo futuro è destinato – per sua stessa “mano” e per la complicità ideologica di una certa classe politica – a dovere fare i conti con una crisi interna senza precedenti. Dovrà bussare alle porte di Washington e Bruxelles in cerca di un salvagente, anziché il contrario come molti speravano
di Luca Lippi
Milioni di posti di lavoro scomparsi, fabbriche deserte investitori esteri che stanno scappando, pensionati che si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Questa è la fotografia della Cina di oggi, un paese che dovrà affrontare una crisi economica col rischio che si trasformi in una profonda crisi sociale perché per decenni il tacito accordo che c’era tra i cittadini e il Partito Comunista che si basava sulla crescita e sul benessere oggi viene a mancare e cominciano ad emergere critiche pesanti.
Il denaro resta fermo in banca o sotto il materasso, mancano strumenti stabili per farlo crescere e le tariffe di Trump imposte contro la Cina hanno esacerbato questa crisi che era già in corso dal 2023. Da quando gli Stati Uniti hanno alzato i dazi sulle merci cinesi fino al 145 per cento il commercio si è praticamente congelato, le navi cargo dalla Cina verso l’America hanno visto crollare le loro spedizioni del 60 per cento, un numero da capogiro.

Non si tratta solo di una guerra commerciale, ma di uno shock totale per le catene di approvvigionamento, simile a quello già vissuto durante la pandemia – carta igienica e mascherine introvabili -. Questa volta potrebbe essere ancora peggio, perché ora non si tratta solo di carta igienica ma di medicine, di giocattoli di abiti e materiale per la scuola e molto altro ancora.
Non è solo una questione tra Washington e Pechino
Ovviamente già si è aperto il tavolo delle trattative tra Cina e USA ma il commercio non è un interruttore che si può spegnere e riaccendere. Anche se Trump eliminasse immediatamente tutti i dazi, non ci sarebbero più abbastanza navi disponibili per trasportare tutti i prodotti che servono urgentemente ai negozi americani. Sarebbe come cercare di riempire una piscina olimpionica usando un cucchiaino. Il Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse avvertono che il mondo intero sta entrando in una zona pericolosa che potrebbe portare ad una stagnazione globale simile a quella della crisi finanziaria del 2008. Non è, quindi, solo una questione tra Washington e Pechino ma è qualcosa che riguarda tutti. Se la Cina crollasse economicamente il mondo intero ne pagherebbe le conseguenze: prezzi in aumento, scarsità di beni essenziali, nuove crisi finanziarie in altri paesi collegati a doppio filo alle catene di approvvigionamento cinesi. E in mezzo ci si ritroverebbe anche l’Europa.
Il PIL cinese
Guardando solo al numero ufficiale sul consumo, l’ufficio nazionale di statistica cinese ha “strombazzato” un + 4,6 per cento di vendite al dettaglio – misura la spesa dei consumatori –. Salvo poi controllare meglio i dati e scoprire che hanno abbassato di circa un punto percentuale la base di confronto dello scorso anno. Vizietto caro a certi regimi (nessuno escluso), un trucco contabile che ha “gonfiato” la crescita.
Non è finita. Dal 2024 la Cina ha in campo un programma di stimoli governativi chiamati “Trade In”, si tratta di sconti su elettrodomestici e automobili che avrebbero dovuto ridurre l’importo totale degli acquisti. Ma l’ufficio preposto al calcolo ha contato i prezzi originali non quelli scontati, così l’indice CPI che misura l’inflazione, ovvero l’aumento dei prezzi al consumo, è lievemente “deformato”. La conferma di questo si evince dalle relazioni economiche tra Shanghai e Pechino nel primo trimestre: i consumi sono scesi, quindi se i motori di spesa delle metropoli arrancano, figurarsi le città di seconda o terza fascia o addirittura le campagne. Come potrebbero sostenere la crescita nazionale al 4,6 per cento? Infatti la realtà che emerge dietro a questo teatrino è più dura e preoccupante di quanto molti credano.
Centinaia di fabbriche stanno chiudendo, ordini cancellati dall’oggi al domani, intere catene di fornitura che si sgretolano. Troppi “bontemponi” – purtroppo, spesso, sono anche “stimati” analisti – credono la Cina sia forte abbastanza da incassare il colpo. Addirittura si “sente dire in giro” che perdere il mercato americano non è un gran problema e che la Cina troverà con disinvoltura altri clienti e che comunque un miliardo e mezzo di persone possono comprare internamente i loro prodotti. E allora guardiamo nelle tasche di questo miliardo e mezzo di risorse inesauribili.
Perchè la Cina non è in grado di sostenere la crisi
Gli Stati Uniti da soli rappresentano quasi il 25 per cento delle esportazioni cinesi. Contando tutte le merci che per aggirare le tariffe transitano da Vietnam e Messico, questo enorme calo di ordini dagli Stati Uniti non può essere facilmente assorbito e compensato dal mercato interno cinese o dall’Europa.
Non è solo una questione di numeri ma di mentalità! Gli americani consumano quasi il triplo rispetto ai cinesi. Negli Stati Uniti la spesa è uno stile di vita, mentre in Cina il risparmio è radicato nella cultura. Il cittadino medio cinese accumula più del 40 per cento del proprio reddito mentre un americano, che è più “giuggiolone” ne mette da parte meno di un decimo. Nel paese asiatico risparmiare non è una “scelta romantica” ma un’esigenza obbligata dal totalitarismo.
La Cina è un paese in cui sanità e previdenza hanno falle enormi e dove, a causa della vecchia politica del figlio unico iniziata negli anni 80 – seppure interrotta nel 2015 – ha creato tre generazioni che si poggiano sulle spalle di un solo erede. Potrà mai sostenere il peso della vecchiaia? La risposta è che oggi un’enorme quantità di merce cinese rimane invenduta con fabbriche che sono allo stremo. Quest’ultime cercano di vendere sul mercato locale senza però trovare abbastanza compratori e la situazione peggiora di giorno in giorno. Si cominciano a vedere prodotti che prima costavano decine di dollari, venduti al peso come se fossero verdura da smaltire prima che vada a male. Capi d’ abbigliamento venduti a meno di 50 centesimi, elettrodomestici svenduti a pochi dollari al chilo.
È la fotografia perfetta di quello che l’Occidente ha combattuto con ogni forma possibile per oltre un secolo. In Cina la spesa per i consumi rappresenta solo il 39 per cento sul calcolo totale del prodotto interno lordo, per rendere comprensibile il volume, negli Stati Uniti la spesa per i consumi rappresenta il 70 per cento.
La Cina è obbligata a esportare
Pechino cerca disperatamente mercati alternativi di sbocco per le sue merci e dove va? In India? Dal terzo al quarto mondo sembra una “non soluzione”. Inoltre continua a lanciare cantieri e quello che è accaduto negli ultimi decenni è di avere asfaltato il pianeta, alzato ponti dove nessuno passa, costruito città che appaiono come conchiglie vuote.
Quest’anno vogliono arrivare al 5 per cento e i poveri funzionari provinciali, che non possono fare brutte figure con chi comanda, continuano a costruire, continuano ad aprire cantieri, ad impastare cemento e bandire appalti. Il calcolo è semplice, ogni mattone acquistato, ogni ora di manodopera, ogni annuncio pubblicitario entra nel conteggio del prodotto interno lordo. Che poi sia utile oppure no non è determinante! In questo modo, in un quarto di secolo, la Cina ha triplicato la lunghezza delle sue strade, ha steso binari che girano su sé stessi, edificato appartamenti da ospitare più del doppio della popolazione europea trasformando zone sperdute in spettacolari catasti di grattacieli dove di notte le luci restano spente perché nessuno li abita.
Il mercato immobiliare cinese
Non è un caso che il disastro cinese più grande riguardi proprio il mercato immobiliare. I prezzi delle case in Cina stanno crollando ininterrottamente. L’immobiliare in Cina non è solo un settore economico come in Europa in Italia o in America, è il pilastro portante del paese. Vale quasi un terzo dell’intera economia.

L’export cinese
Il famoso export cinese – una realtà visibile a occhio nudo in tutto il mondo occidentale invaso di prodotti made in china – costringe i governi dei Paesi importatori (es. Germania o India) ad alzare barriere. Il motivo è banale, non vogliono vedere le loro fabbriche svuotarsi. Più la Cina spinge, più i muri si alzano. Trump ha solo la colpa di averlo ammesso ma tutti lo fanno!
Alla Cina rimane solo di convincere i cinesi a comprare il made in China ma perché non lo fanno? Perché se l’intellettuale spreme le meningi a dare interpretazioni grottesche alle vetuste teorie Marxiste, il popolo gode del privilegio dell’esperienza e della memoria collettiva. Chi al mattino mette i piedi nelle scarpe ancora calde del giorno precedente, specie in quei regimi, ha incisa l’esperienza di aver dovuto affrontare 12 carestie in 400 anni. l’ultima solo 60 anni fa. Fu la peggiore mai registrata e insegnò che la fame può tornare in un ambiente dove la terra coltivabile è poca ed è vulnerabile a inondazione e siccità. Ogni famiglia percepisce ancora la eco di quelle privazioni e preferisce accumulare grano, ovvero, mettere il denaro sotto al materasso.
Generazione di fenomeni
Un figlio dovrà badare a due genitori e quattro nonni, questo spinge a mettere via ogni centesimo per le lunghe degenze. Un giorno in ospedale in Cina può costare 1200 euro che equivalgono al 17 per cento del reddito medio annuo. E la copertura pubblica non basta per le cure croniche o catastrofiche soprattutto in campagna.
Lo Statalismo
In Europa e negli Stati Uniti il benessere è la rampa di lancio verso una democratizzazione del profitto. Laddove si lamentano carenze e divari esagerati e complessi fra ricchi e poveri in realtà sottendono garanzie alimentari e cure mediche per tutti – magari con qualche deficienza è innegabile, ma finchè c’è la forza di protestare vuol dire che il necessario è garantito -. In Cina – al contrario di quello che si propaganda, i piani pensioni, alimentari, da investimenti in borsa, sono un sogno. I principali gruppi energetici, bancari, delle costruzioni, della difesa, sono imprese statali.
I mercati azionari languono allo stesso livello di 20 anni fa e l’effetto ricchezza non attecchisce. Non è solo questione di guadagni mancati, è proprio la sensazione di non avere un volante in mano, di non poter far fruttare i risparmi e quindi di non poterli spendere con leggerezza. Per tutti questi motivi in Cina il denaro resta fermo in banca perché mancano strumenti semplici e stabili per farlo crescere. Da qui nasce la frizione con il resto del mondo. Molti governi pensavano che 1 miliardo e 400 milioni di cinesi potessero diventare i nuovi acquirenti al posto degli europei e degli americani, invece dopo 25 anni di aperture commerciali gli scaffali stranieri non si svuotano in direzione Pechino quanto sperato e la colpa non sembra dei consumatori ma di un sistema che frena il loro potere di acquisto.
Crisi economica meno importante di quella sociale
Quello che nessuno racconta è che la maggior parte delle fabbriche cinesi, già prima delle tariffe americane, lavorava con margini ridottissimi, spesso inferiori al 5 per cento. Quindi bastano pochi punti percentuali di tariffa in più e queste aziende finiscono rapidamente sott’acqua.
Non possono semplicemente tagliare ancora i prezzi perché andrebbero in perdita netta e quando queste fabbriche inizieranno a chiudere, trascineranno con sé migliaia di posti di lavoro, creando un effetto domino che rischia di travolgere intere regioni. Quando queste fabbriche smetteranno di funzionare inizieranno anche i problemi per le banche. I prestiti non pagati sono debiti che rimangono incagliati. Un sistema bancario che traballa pericolosamente impone l’intervento governativo. Le autorità cinesi hanno provato ad intervenire la rotta con salvataggi statali ma quanto potrà durare questa strategia?
In questo groviglio di problemi interconnessi, la crisi economica diventa niente rispetto alla crisi sociale che emergerebbe in molte zone, soprattutto nelle campagne. Le pensioni iniziano a non essere più pagate e gli anziani si ritrovano a dover scegliere tra medicine o pane da mangiare, con figli che sono già strozzati economicamente. È una situazione drammatica che sta emergendo sempre più chiaramente anche sui social media nonostante tutti i tentativi di censura da parte di Pechino.
Il problema demografico
Nel 2023, per la prima volta sono morte più persone di quante ne siano nate. La popolazione cinese sta letteralmente invecchiando e diminuendo con più di 300 milioni di persone sopra i 60 anni che sono pronte ad uscire dal mercato del lavoro. In sostanza, è come se improvvisamente la Cina si fosse svegliata invecchiata di colpo, con sempre meno persone giovani in grado di mantenere viva la produttività e pagare le pensioni. Esattamente quello che sta accadendo in Italia ma molto più in grande!

I giovani laureati non trovano lavoro, il mercato immobiliare è al collasso e persino le grandi aziende cinesi cercano disperatamente di trasferire i capitali all’estero prima che la nave affondi del tutto. È un crollo lento e inesorabile, del tutto simile a quello che ha vissuto il Giappone negli anni 90.
La paralisi di consumatori e investitori
Nessuno vuole spendere nessuno vuole investire. Trump non c’entra niente! Gli investitori esteri stanno scappando dal paese spaventati da una crisi che sembra ormai inevitabile. Le grandi aziende come Apple, Nike, Adidas, stanno già prendendo le distanze dalla Cina trasferendo progressivamente la produzione in altri paesi per non rimanere intrappolati in una guerra commerciale senza fine. Questo non sta succedendo perché sia facile o economico, ma perché ormai è diventato un rischio troppo alto restare legati a Pechino. Se persino Apple sta spostando la produzione degli iPhone verso l’India, è segno che questa crisi non è una crisi passeggera ma è un cambiamento profondo che sta riscrivendo le regole del commercio mondiale. Il flusso di investimenti stranieri si è letteralmente invertito passando in negativo nel 2023 e questa pressione sta facendo emergere le crepe politiche profonde all’interno del Partito Comunista cinese.
Perchè Trump sembra tendere una mano a Xi
I colloqui che intercorrono tra la diplomazia USA e quella cinese non sono interlocuzioni per trattare sui dazi. Il governo USA sa bene che dare il “colpo di grazia” a un paese come la Cina procurerebbe un domino costoso e lungo da arrestare. Il Tycoon, in realtà, brandisce la verga su un suicida non ancora cadavere. Mentre “il partito” cinese risponde al malcontento interno con la solita retorica nazionalista, accusando gli Stati Uniti, ormai – chi può – lascia il Paese. Il tentativo di svalutare la moneta non è bastato, svalutare una moneta significa pagare di più per le materie prime importate, impoverendo la popolazione già povera.
Ogni volta che Pechino “abbassa” Washington alza ancora di più le tariffe, è una spirale che non lascia spazio di manovra e che rischia di generare panico tra i risparmiatori, portando a situazioni estreme come le corse agli sportelli bancari.
Anteporre l’ideologia alle necessità del popolo
Ci sarebbero anche delle soluzioni che sono però tutte quante indigeste all’impostazione di Pechino. Spostare risorse dalle imprese pubbliche alle famiglie, rinforzare la rete del welfare, far salire il valore della moneta, dare più potere d’acquisto. Ma tutto questo non è gradito “al partito”.
La tensione resterà finché la soglia critica del consumo interno non salirà almeno del dieci per cento, dal 38 per cento al 48 per cento, soglia che equivarrebbe quasi a pareggiare i conti con l’estero. Basterebbe questo per cambiare la partita globale. Basterebbe questo per fare abbassare i dazi americani e forse è l’argomento dell’apertura USA alla Cina. Se Xi intenderà anteporre l’ideologia alle necessità del suo popolo, assisteremo alla fine del sogno cinese durato meno di cinquant’anni.