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POWELL TRA LE PRESSIONI DI TRUMP E IL RISCHIO INFLAZIONE

Jerome Powell guida ancora la Federal Reserve, ma la sua influenza sui mercati appare ridimensionata. È il presidente Trump a dominare la scena, oscurando ogni altro attore con la sua stravagante e a tratti aggressiva comunicazione social

di Luca Lippi

Dopo la minaccia dei dazi – poi sospesi, ma costati ai mercati il 20 per cento – Trump ha adottato toni da campagna elettorale permanente contro l’immobilismo della Fed. Ha attaccato Powell, definendolo un “nemico” della crescita americana e mettendo in dubbio pubblicamente la sua leadership, pur non avendo il potere tecnico di rimuoverlo. Un messaggio forte e chiaro.

Mandato vs. Pressioni

In questo scenario, Powell resta fermo sulle sue posizioni attendiste, vincolato al doppio mandato della Fed: massima occupazione e stabilità dei prezzi (controllo dell’inflazione). Con Trump diventato, nel frattempo diventato il vero “market mover”, i mercati hanno ridotto le aspettative verso la banca centrale, concentrandosi su chi, tra i due, cederà per primo.

Luci e Ombre del mercato del lavoro

Il mercato del lavoro USA rimane robusto, ma emergono segnali di indebolimento del ciclo economico, specialmente dalla fiducia dei consumatori. Questi ultimi risentono degli effetti combinati dell’inflazione post-Covid (ora in calo, ma con prezzi rimasti alti) e dei tassi d’interesse elevati, che gravano su mutui e credito al consumo.

I dazi potrebbero innescare una nuova fiammata inflazionistica

Il contesto è teso. L’”eventuale” introduzione di dazi, specialmente su beni cinesi (con tariffe ipotizzate fino al 145 per cento ma già ampiamente “trattabili” e rincari portuali), potrebbe innescare una nuova fiammata inflazionistica per due motivi. Penuria di beni: la riduzione del traffico di container (-50 per cento) preannuncia una carenza di merci importate. Rincari diretti: i dazi stessi comporterebbero un aumento dei prezzi al consumo, un effetto che persino Amazon aveva considerato di esplicitare.

Questi fattori rendono quasi impossibile per Powell considerare un taglio dei tassi, data la minaccia di un’inflazione latente.

Pericoloso tagliare i tassi?

Nonostante il crollo della fiducia dei consumatori spinga alcuni (Trump in testa) a chiedere un taglio dei tassi per stimolare l’economia, Powell resiste. Un’eventuale inflazione non deriverebbe da un’economia surriscaldata, ma da uno shock geopolitico (dazi, problemi di approvvigionamento). Tagliare i tassi sarebbe inefficace – il denaro più facile non sblocca i porti né riduce le tariffe – e potenzialmente controproducente, alimentando aspettative inflazionistiche e minando la credibilità della Fed.

L’indipendenza della Fed messa alla prova

C’è un ulteriore elemento cruciale: un taglio dei tassi ora verrebbe interpretato come una resa alle pressioni di Trump, compromettendo l’indipendenza della Federal Reserve. Powell è uno degli ultimi simboli di autonomia istituzionale, ma in un’America dove il presidente commenta la politica monetaria via social e minaccia licenziamenti, la Fed è sotto forte pressione. Il rischio non è solo economico, ma sistemico.

Chi guida i mercati?

La domanda ora non è più “quando taglierà la Fed?”, ma “chi detta realmente l’agenda dei mercati?”. Powell si trova in una trappola: tagliare i tassi significherebbe cedere a Trump; non tagliarli potrebbe minare la fiducia e rischiare una recessione.