
È un’affermazione comune che il lusso non conosca crisi, sostenuta dall’idea che i suoi abbienti consumatori acquistino non tanto per esibire lo status attuale, quanto mossi da una solida fiducia nel futuro. In effetti, il lusso sembra spesso muoversi in una dimensione parallela, i cui clienti non paiono temere inflazione, rincari o turbolenze di mercato
di Luca Lippi
Dopotutto, chi spende decine di migliaia di euro per una borsa o un’auto da sogno, apparentemente non ha preoccupazioni finanziarie immediate né problemi a pianificare il domani. Eppure, anche questo settore apparentemente invulnerabile sta mostrando segni di inesorabile rallentamento. Le maison devono fare i conti con dinamiche globali complesse: dazi, margini sotto pressione, mutevoli gusti dei consumatori e l’impatto dei tassi di cambio. Così, alcuni marchi iniziano a vacillare, mentre altri dimostrano una notevole capacità di tenuta.
Di fronte a questa frenata, le cause più immediate addotte dagli osservatori di mercato spaziano dall’inflazione all’aumento dei costi delle materie prime. Altri, più pragmaticamente, indicano i drastici aumenti di prezzo – in alcuni casi fino al 100 per cento – che hanno caratterizzato il settore negli ultimi quattro anni.
DALL’EUFORIA DEI PREZZI AL “SUICIDIO INDUSTRIALE”
Per anni, colossi del lusso come Chanel, Gucci e LVMH hanno dettato legge, aumentando i prezzi a piacimento con vendite in continua ascesa. Oggi, tuttavia, la situazione è cambiata: i conti si assottigliano e, secondo dati recenti (Sole24Ore, 13 nov. 2024), negli ultimi due anni il settore ha perso 50 milioni di consumatori. Questo calo è particolarmente allarmante se si considera che nel 2023 oltre 58 milioni di famiglie nel mondo vantavano un patrimonio superiore al milione di dollari: la capacità di spesa esiste, ma gli acquisti nel lusso non seguono.
Questa flessione, tuttavia, non è un fulmine a ciel sereno. Un’analisi più attenta suggerisce piuttosto un “lento suicidio industriale”, frutto di una serie di scelte strategiche errate. Per decenni, il lusso ha sfidato la legge base di domanda e offerta, operando secondo il principio dei “beni di Veblen”, teorizzato dall’economista Thorstein Veblen: più un bene è costoso, più diventa desiderabile. Un prezzo elevato agiva da distintivo di esclusività, alimentando una crescita costante delle vendite, interrotta solo brevemente da crisi come quella del 2008 o la pandemia, seguite però da vigorose riprese.
Il fenomeno del “revenge spending” post-pandemico, con consumatori desiderosi di recuperare il tempo perduto e forti di risparmi accumulati, ha ulteriormente gonfiato le vendite, specialmente online. Ma quando questa ondata di domanda si è stabilizzata, i brand hanno compiuto una mossa azzardata: ulteriori, drastici aumenti di prezzo. Questa volta, però, i consumatori, dagli Stati Uniti alla Cina, hanno iniziato a manifestare il loro dissenso, segnando un potenziale punto di svolta per l’intero settore.
FUGA VERSO L’AUTENTICITÀ
L’aumento dei prezzi, pur significativo, non spiega da solo le attuali difficoltà del settore del lusso. Tre fattori interconnessi giocano un ruolo cruciale:
- L’ascesa del second-hand e del vintage: Specialmente in Occidente, le abitudini di consumo post-Covid hanno visto i giovani (Generazione Z in testa) abbracciare il mercato dell’usato. Attratti da sostenibilità, prezzi accessibili e qualità, hanno spinto questo segmento a raggiungere i 47 miliardi di dollari nel 2023.
- La svolta autentica in Cina: anche i giovani consumatori cinesi si stanno allontanando dai marchi globali tradizionali, preferendo brand locali e indipendenti percepiti come più autentici e capaci di raccontare storie originali.
- La spinta cinese alla sobrietà: le direttive governative cinesi verso uno stile di vita meno ostentato, con restrizioni su pubblicità vistose e influencer carichi di loghi, rappresentano una sfida significativa per le strategie di marketing del lusso.
AUMENTO DI PREZZI MA NESSUN MIGLIORAMENTO QUALITATIVO
Tuttavia, questi cambiamenti sono anche una reazione a un errore strategico fondamentale dei grandi marchi: aumenti di prezzo sproporzionati (fino al +61 per cento tra 2019 e 2024 in USA ed Europa) non supportati da reale innovazione o tangibili miglioramenti qualitativi. La perpetuazione degli stessi design iconici (come i monogrammi), unita a un percepito calo della qualità – talvolta legato a produzioni con standard inferiori per contenere i costi – ha generato una diffusa “brand fatigue” secondo Michael Kors.
Le nuove generazioni, in particolare, non perdonano questa discrepanza: esigono autenticità e valore reale, non solo un logo costoso. La ricerca del brand come mero status symbol sembra così interessare maggiormente una clientela meno esperta o desiderosa di affermazione sociale, mentre i consumatori più consapevoli e i “vecchi ricchi” si orientano verso nuove mete: negozi vintage, boutique indipendenti e brand emergenti.
Piattaforme di “usato” come la giapponese Merari (6,5 miliardi di dollari di valore nel 2023, con il 70 per cento degli acquisti dagli USA) ne sono la prova. Anche i nuovi brand che puntano su minimalismo, assenza di loghi e alta qualità pratica guadagnano terreno, così come etichette più giovani e accessibili di grandi gruppi, come Miu Miu dell’italianissima Prada, le cui vendite sono cresciute esponenzialmente (+105 per cento in un trimestre), segnalando un cambiamento di paradigma nel settore.
LVMH ARRANCA, HERMÈS PROSPERA SULL’ESCLUSIVITÀ
Non tutti i grandi del lusso sono destinati al tracollo. LVMH, colosso da 75 marchi con una solida governance sotto Bernard Arnault, vanta fondamentali robusti e una crescita storica dell’utile per azione (9,3 per cento annuo negli ultimi 15 anni). Tuttavia, anche LVMH ha recentemente vacillato: le azioni hanno subito forti ribassi a causa della frenata del mercato cinese, da cui dipende pesantemente (i consumatori cinesi generano due terzi delle vendite globali del lusso). Le vendite del gruppo sono calate (meno tre per cento nell’ultimo trimestre, oltre -10 per cento in Asia escluso Giappone), riflettendo l’incertezza globale e la contrazione della spesa. Persino il marchio Louis Vuitton mostra segni di “brand fatigue”, percepito come saturo e meno esclusivo. Nonostante un calo del 50 per cento nei profitti operativi (influenzato più dal cambio valutario che da debolezze operative strutturali) e la sofferenza in molte divisioni (eccetto profumi e retail selettivo come Dior e Sephora), LVMH ha mantenuto il dividendo, segno di residua forza.
IL VERO LUSSO RISIEDE NELLA SCELTA INFORMATA
In netto contrasto, Hermès prospera grazie a una strategia di estrema esclusività e scarsità. Con margini elevatissimi (borse prodotte a 1.500 dollari vendute a 30.000 dollari), liste d’attesa per prodotti iconici come la Birkin e una produzione limitata che non insegue le mode, Hermès ha mantenuto risultati solidi (crescita in Asia escluso Giappone nei primi trimestri del 2024), alimentando un desiderio quasi mitico. Il lusso è ciclico, legato all’ottimismo e all’ “effetto ricchezza”. Il problema attuale non sono tanto i dazi, quanto l’erosione di tale effetto a causa delle turbolenze dei mercati finanziari e immobiliari, che minano la fiducia dei consumatori nel futuro.
Storicamente, i rallentamenti nel settore durano 12-18 mesi, suggerendo una possibile ripresa tra fine 2025 e il 2026. Il desiderio, motore del settore, non svanisce ma si adatta: il denaro del lusso cambia forma, non si distrugge. Mentre molti brand reagiscono con offerte ancora più esclusive, i consumatori più consapevoli cercano sostanza. Il vero lusso, oggi, potrebbe risiedere nella scelta informata e nell’individuare i marchi capaci di navigare con successo le sfide attuali, purché siano sfide e non pericolose genuflessioni ad altrettanto pericolose derive ideologiche.