
di Katrin Bove
Non è più una semplice constatazione anagrafica: gli italiani vivono più a lungo che mai – 81,4 anni per gli uomini e 85,5 per le donne – ma la qualità degli anni aggiuntivi non segue lo stesso ritmo. Il Rapporto annuale 2025 dell’Istat, presentato alla Camera dei Deputati dal presidente Francesco Maria Chelli, svela un paradosso inquietante: l’Italia è tra i Paesi più longevi d’Europa, ma la speranza di vita in buona salute si riduce, soprattutto per le donne, che perdono in un solo anno ben 1,3 anni di vita in salute.
L’illusione della longevità: più anni, ma non migliori
A fronte della ritrovata longevità post-pandemia, la speranza di vita in buona salute si attesta a 59,8 anni per gli uomini e scende a 56,6 anni per le donne, segnando per queste ultime il minimo del decennio. La distanza tra aspettativa di vita e salute reale si allarga, con un divario di oltre 25 anni da vivere con malattie croniche, disabilità o limitazioni funzionali. In parallelo, il disagio psicologico cresce, soprattutto tra i giovani e le donne. L’indice di salute mentale in Italia è di 68,4 punti su 100 (70,4 tra i 14-24enni), un valore che riflette una vulnerabilità crescente anche in fasce di popolazione teoricamente più resilienti.
L’Italia che rinuncia a curarsi
Oltre a vivere peggio, gli italiani si curano meno. Il 9,9% della popolazione ha rinunciato nel 2024 a visite o esami clinici, soprattutto per liste d’attesa (6,8%) o per motivi economici (5,3%). La rinuncia alle cure è in crescita costante dal 2019 (quando era al 6,3%) e colpisce sempre di più anche i residenti nel Nord e i più istruiti, segno di un indebolimento trasversale delle tutele sanitarie. Allo stesso tempo, cresce il ricorso al privato: quasi un quarto degli italiani (23,9%) ha pagato di tasca propria l’ultima prestazione sanitaria, senza rimborsi assicurativi. In altre parole, l’accesso alla salute torna a essere un privilegio economico.
Il sistema sanitario sotto pressione
Nonostante l’Italia mantenga livelli contenuti di mortalità evitabile (17,7 decessi per 10.000 abitanti, secondo miglior dato UE), il Paese mostra progressi troppo lenti nella mortalità “trattabile”, ovvero quella evitabile con diagnosi e cure tempestive. La sanità pubblica resta quindi un’eccellenza solo parziale, frenata da carenze strutturali, diseguaglianze territoriali (Sud e Isole restano indietro) e lungaggini organizzative.
La disuguaglianza sociale incide sulla salute
Il Rapporto Istat 2025 conferma che povertà, bassa istruzione e marginalità territoriale aumentano la probabilità di vivere meno e peggio. Le famiglie con basso livello d’istruzione subiscono un’incidenza della povertà assoluta quasi tripla rispetto a quelle con almeno un diploma (13% contro 4,6%), e sono più esposte anche a rinunce sanitarie. La salute, dunque, è sempre meno democratica. E il prezzo lo pagano soprattutto le fasce fragili, i lavoratori precari, i giovani a basso reddito, i residenti delle aree interne e i disabili, oggi 2,9 milioni (il 5% della popolazione), in gran parte anziani e senza adeguata rete di supporto.
Un’urgenza sistemica
L’Italia è una società che invecchia, ma non matura nel suo modo di prendersi cura dei più deboli. La longevità, se non accompagnata da benessere, rischia di trasformarsi in una condanna silenziosa. Servono investimenti mirati per potenziare l’assistenza territoriale, abbattere le liste d’attesa, garantire accesso equo alle cure e promuovere prevenzione e salute mentale. Il Rapporto Istat è un monito: vivere più a lungo non può bastare. Bisogna garantire anche il diritto di vivere meglio.