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Euro forte: vantaggi e rischi per un’Europa divisa

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Un euro forte può sembrare una buona notizia, ma penalizza l’export e accentua le differenze tra i Paesi dell’Eurozona. Ecco chi guadagna e chi perde

di Luca Lippi

Negli ultimi mesi, il dollaro ha perso oltre l’8 per cento del suo valore rispetto alle altre valute, spianando la strada a un euro forte e dominante. Se per i consumatori questa può sembrare una benedizione, per il tessuto economico e industriale del continente rischia di trasformarsi in una maledizione. Un euro troppo apprezzato è un boomerang che premia alcuni Paesi penalizzandone altri, mettendo in discussione l’essenza stessa di una moneta nata per unire e sollevando interrogativi cruciali: quali sono i reali vantaggi e svantaggi di questa
forza? Una politica monetaria apparentemente neutra, come quella della Banca Centrale Europea, può davvero avere conseguenze così diverse sui suoi membri più fragili?

Cos’è un euro forte e perché preoccupa l’Eurozona

La forza dell’euro ha spinto alcuni analisti a ipotizzare un futuro in cui la moneta unica possa rivaleggiare direttamente con il dollaro come valuta di riserva globale. Tuttavia, la realtà dei numeri impone cautela. Il dollaro domina ancora con il 60 per cento delle riserve mondiali, mentre l’euro lo segue a distanza con una quota dignitosa ma modesta del 20 per cento. È vero, l’Europa si sta impegnando a emettere debito in abbondanza — con oltre 600 miliardi piazzati durante la pandemia e altri 500 annunciati persino dalla prudente Germania — ma restano problemi strutturali pesanti come macigni. Paesi come l’Italia e la Grecia, con debiti pubblici che superano il 150 per cento del PIL, rappresentano un’incognita che continua ad agitare il sonno degli investitori e a ricordare la fragilità degli equilibri interni.

I vantaggi immediati: dal carrello della spesa ai conti dello Stato. Al di là delle visioni globali, un euro forte porta vantaggi tangibili per i cittadini europei. I beni importati, come petrolio, gas, metalli e componenti elettronici, diventano meno costosi, poiché sono pagati in dollari o altre valute. Con un euro “più pesante”, servono meno soldi per acquistare la stessa quantità di merci. Ma l’effetto più importante, sebbene meno visibile, riguarda il debito pubblico. Quando l’euro è forte e l’inflazione è sotto controllo, i mercati si fidano di più dell’Eurozona e acquistano con entusiasmo i titoli di Stato. Questa fiducia abbassa i tassi di interesse, permettendo ai governi di indebitarsi a costi inferiori. È come ottenere un prestito con una rata mensile più bassa: i soldi risparmiati sugli interessi possono essere investiti in servizi pubblici, infrastrutture o persino in una riduzione delle tasse. Si innesca un circolo virtuoso che, però, nasconde un pericoloso rovescio della medaglia.

Le conseguenze negative per l’export e le multinazionali

A lanciare l’allarme sono infatti i colossi dell’export europeo. Aziende come SAP, Porsche, Bayer, Stellantis e Mercedes, che hanno costruito il loro successo sui mercati internazionali, si trovano di fronte a un problema semplice ma letale: più l’euro si rafforza, più i loro prodotti diventano cari per i consumatori americani. La vera batosta, però, arriva al momento di rimpatriare i profitti denominati in dollari, che una volta convertiti si riducono drasticamente. SAP, il gigante tedesco del software, stima una perdita di 30 milioni di euro di ricavi per ogni centesimo di apprezzamento nel cambio euro-dollaro. Per Schneider Electric il danno potenziale sale a 1,25 miliardi. Cifre che non sono solo numeri, ma rappresentano posti di lavoro, innovazione e progetti futuri.

A questa pressione valutaria si sommano le tensioni commerciali, come i dazi statunitensi, e la complessa partita con la Cina. Mentre l’euro sale, lo yuan scivola, rendendo la competizione con i colossi orientali ancora più ardua. Pechino corteggia l’Europa come partner alternativo, ma Bruxelles rimane prudente, consapevole che le relazioni sono complicate: la Cina inonda il mercato UE di merci a basso costo e sovvenzionate, limitando al contempo l’accesso al proprio. Politicamente, il sostegno indiretto a Mosca e l’aggressività nel Mar Cinese Meridionale costringono l’Europa a considerare il Dragone più un rivale strategico che un partner affidabile.

Le fratture interne all’Eurozona e i limiti della BCE

La difficoltà maggiore, tuttavia, emerge guardando alle diversità interne dell’Eurozona. La moneta unica, nata per unire, ha finito per esporre differenze strutturali che rendono impossibile accontentare tutti. Il tasso di cambio ideale per la Germania si attesta su 1,50 contro il dollaro; la Francia sarebbe a suo agio a 1,23; la Grecia, invece, troverebbe il suo equilibrio quasi alla parità. Con distanze così abissali, come può la BCE trovare una soluzione unica? La risposta è che non può. Per statuto, la Banca Centrale deve mantenere unalinea neutrale, ma è proprio questa neutralità a penalizzare i Paesi che, come l’Irlanda o il Portogallo, hanno ricostruito con fatica la loro competitività e ora vedono i loro sforzi vanificati da una valuta troppo forte. Dall’altro lato, nazioni come la Germania e l’Olanda reggono l’urto grazie a un export di altissima qualità.

Ma quanto può durare questo equilibrio instabile?

Pensare che la politica monetaria possa risolvere problemi strutturali è un’illusione. È come rattoppare una diga con del nastro adesivo. Se i Paesi smettono di riformarsi perché “tanto ci pensa la BCE”, l’intero sistema rischia il collasso. In sintesi, l’euro forte non è un regalo per tutti. Al contrario, è il segnale che la coesione europea è più fragile di quanto si ammetta. Il suo valore non è un semplice numero, ma il termometro di un’Unione che deve decidere se diventare davvero solidale o accettare che qualcuno, inevitabilmente, resti indietro. Per risparmiatori e investitori, è il momento di osservare con attenzione, perché i prossimi mesi potrebbero riservare sorprese, non tutte piacevoli.