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NUCLEARE, LA FOBIA CHE CI HA CAMBIATI: COSÌ L’ITALIA HA RINUNCIATO AL FUTURO ENERGETICO

Visione aerea di una centrale nucleare

L’Italia ha detto no al nucleare per paura, ma a quale prezzo? Un’analisi tra memoria storica, psicologia collettiva e indipendenza energetica

di Ivan Iacob

La rinuncia al nucleare da parte dello Stato italiano è stata una scelta cruciale che ha determinato nuovi scenari e conseguenze, non solo energetiche ma anche economiche e culturali. Una decisione che affonda le sue radici in un momento di profondo trauma collettivo: l’esplosione della centrale di Chernobyl nel 1986. All’epoca, la paura della contaminazione si diffuse rapidamente, anche grazie a una copertura mediatica capillare, allarmata e anche allarmistica. Per la prima volta un disastro nucleare entrava nelle case degli italiani, nelle scuole, nei discorsi quotidiani. Ricordo ancora, da ragazzo delle medie, i giornali pieni di mappe che tracciavano la nube tossica – disegnata con tinte rosso-nere – che si estendeva sull’Italia, raccontando di un’influenza che ci avrebbe condizionato per almeno trent’anni. Quella comunicazione si innestava su una paura (del nucleare) non sortita solo da Chernobyl. Affonda le sue radici più profonde nella fine della Seconda guerra mondiale, quando le immagini di Hiroshima e Nagasaki hanno impresso nella coscienza collettiva l’idea del nucleare come sinonimo di morte e distruzione. Quella è stata la prima, gravissima, ferita. Chernobyl è arrivata come un secondo trauma, un riattivatore della paura originaria, stavolta in chiave civile.

Chernobyl e il trauma collettivo italiano

Il disastro di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986, causò direttamente la morte di 31 persone nei primi giorni, ma gli effetti a lungo termine restano ancora oggi oggetto di dibattito. Secondo l’Oms e l’Iaea, i morti attribuibili all’incidente potrebbero essere circa 4mila. Alcuni studi indipendenti spingono la stima molto più in alto, includendo le vittime per tumori e malattie correlate negli anni successivi.

In Italia, l’effetto psicologico fu devastante. Pochi mesi dopo, nel 1987, si tenne un referendum popolare che vide la partecipazione del 65% degli aventi diritto. Oltre l’80% dei votanti si espresse contro il nucleare. Fu una bocciatura netta. Replicata nel 2011, dopo l’incidente nucleare avvenuto nella centrale nipponica di Fukushima, quando un secondo referendum confermò questa linea. Alla consultazione partecipò il 55% degli elettori e il 94% di loro votò contro il ritorno al nucleare. Benché, va rilevato, non fosse stata registrata alcuna morte direttamente legata all’esposizione radioattiva, né in Giappone né altrove. Il paradosso italiano sul nucleare è però evidente: pur avendo detto “no” al nucleare, il nostro Paese continua a essere esposto ai rischi. Non lontano dai confini tricolori, non certo a migliaia di chilometri come Chernobyl, sono in attività centrali francesi, slovene e svizzere. In sostanza, il pericolo è rimasto, anche se la fonte diretta è stata rimossa dal nostro territorio.

impatto Chernobyl Italia

Il paradosso italiano: no al nucleare, sì all’importazione

Dal punto di vista economico, questa decisione ha avuto un prezzo. L’Italia importa circa il 70% dell’energia primaria, e parte dell’energia elettrica importata dalla Francia è prodotta proprio con il nucleare. I costi dell’energia in Italia sono tra i più alti d’Europa tanto per le famiglie quanto per le imprese che di conseguenza soffrono di un gap competitivo ormai strutturale.

In questo contesto, è utile osservare la vicenda anche con gli strumenti della psicologia economica. La decisione italiana di uscire dal nucleare è un esempio classico di “decisione affettiva”: una scelta in cui le emozioni – paura, ansia, senso di pericolo – hanno prevalso sull’analisi razionale costi-benefici. Secondo la finanza comportamentale, si tratta di un ‘affective bias’ (pregiudizio affettivo), in cui lo stimolo emotivo sovrascrive la valutazione oggettiva del rischio. Siamo di fronte a un comportamento che rispecchia anche la teoria della razionalità limitata di Herbert Simon: quando le informazioni sono complesse o i tempi di decisione brevi, le persone scelgono sulla base di euristiche, cioè scorciatoie mentali, che spesso si basano su ricordi emotivamente forti. In questo caso, la paura della contaminazione nucleare – sostenuta da immagini e narrazioni potenti – ha avuto più peso delle analisi tecniche sul funzionamento e sulla sicurezza delle centrali di nuova generazione.

Psicologia economica e affective bias: una scelta emotiva

Questa scelta è tipica anche di un comportamento fobico, nel senso psicologico del termine: una reazione esagerata e persistente verso un oggetto percepito come pericoloso, anche quando le evidenze suggeriscono che il pericolo sia ridotto o controllabile. È un meccanismo che protegge a breve termine, ma che a lungo termine può portare a decisioni controproducenti, soprattutto se applicato a questioni complesse come la salute pubblica, l’economia, l’energia.

È la paura della ‘contaminazione irreversibile’, più forte di problemi già reali e più pericolosi, come l’inquinamento atmosferico.
Oggi, mentre l’urgenza energetica torna a farsi pressante, è il momento di rivedere quel trauma collettivo. Di interrogarci su quanto le paure di allora abbiano condizionato le scelte di oggi. E se non sia il caso di affrontare, con maggiore lucidità, il tema del nucleare, nell’ambito della necessaria transizione ecologica. Una società moderna non può essere guidata solo dall’emotività. Serve un equilibrio tra cuore e ragione. Tra consapevolezza storica e capacità di decidere sul futuro. In questo equilibrio si gioca anche la nostra indipendenza energetica, la nostra sostenibilità ambientale, la nostra capacità di affrontare le sfide globali con maturità.

Quando il rischio è percepito, non reale

E’ arrivato il momento di aprire un dibattito pubblico consapevole e non emotivo, che vada oltre le reazioni istintive e le semplificazioni ideologiche. Un dibattito che sia, innanzitutto, un processo di elaborazione collettiva, capace di rimettere al centro non solo le ragioni tecniche ed economiche, ma anche i sentimenti profondi che hanno guidato le scelte del passato.

perché l’Italia ha detto no al nucleare

È tempo di guardare in faccia sia la paura, che ci ha spinto a fuggire da ciò che percepivamo come minaccia, sia la negazione sistemica del fatto che quella stessa minaccia è tuttora presente, a pochi chilometri dai nostri confini, senza che questo generi un’adeguata consapevolezza. Abbiamo scelto di allontanare lo “stimolo pericoloso” dal nostro territorio, come spesso accade nel caso di una risposta fobica, ma non abbiamo elaborato realmente il rischio, né ci siamo posti la domanda su come conviverci in modo maturo e razionale. Il dibattito sull’energia nucleare in Italia è da sempre accompagnato da una profonda ambivalenza. Se da un lato il potenziale del nucleare come risorsa energetica sostenibile ed efficiente è sempre più riconosciuto a livello globale, dall’altro, nel nostro Paese, persiste una resistenza culturale e psicologica che affonda le radici in una cronica sfiducia nelle istituzioni e nella capacità del sistema Paese di gestire responsabilmente progetti complessi e ad alto rischio.

A influenzare negativamente l’opinione pubblica non sono soltanto i ricordi di Chernobyl o Fukushima, ma anche una lunga serie di eventi nazionali segnati da negligenze, mancanze nella gestione del rischio, scarsa trasparenza. Questa percezione rafforza l’idea, ormai radicata, che “in Italia le cose non funzionano come dovrebbero”.

Le opportunità della nuova generazione nucleare

Ed è qui che entra in gioco un importante bias cognitivo: il bias della rappresentatività. Molti italiani, sulla base delle esperienze negative vissute o raccontate nel contesto nazionale, tendono a generalizzare e a sottovalutare quanto accade altrove. Così, Paesi come la Germania o la Francia, percepiti a prescindere come più “affidabili”, diventano modelli ideali a cui delegare la gestione di tecnologie complesse come il nucleare. In altre parole, la semplificazione che spesso emerge – “Meglio che lo facciano gli altri” – non è solo una questione di preferenze politiche o ambientali, ma una vera e propria scorciatoia mentale. Un modo per proteggersi da una realtà percepita come fallace, dove la sfiducia diventa il filtro attraverso cui valutare ogni opportunità.

Riaprire oggi questa discussione significa superare il trauma, non negarlo, e capire se siamo in grado – come società – di prendere decisioni che tengano insieme emozioni, dati e visione del futuro. Il nucleare, nel bene e nel male, è uno di quei temi che ci costringono a confrontarci con la nostra identità collettiva, con il nostro rapporto con la paura e con la nostra capacità di pensare il domani non solo come eredità emotiva del passato, ma come possibilità concreta di scelta.