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IL PARADOSSO ITALIANO: UN PAESE RICCO CON STIPENDI POVERI

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Italia, stipendi fermi da 30 anni: perché la crescita salariale è un miraggio

di Luca Lippi

Il reddito dei cittadini non è solo un indicatore del benessere individuale, ma il vero motore dell’economia di una nazione. Dalla loro capacità di spesa dipendono i consumi che sostengono le imprese. Dalle loro tasse derivano i servizi pubblici essenziali e dalla loro stabilità economica nasce la fiducia necessaria per investire e crescere. Senza un reddito adeguato, l’intero sistema si inceppa. Anche se il “circuito” non può essere liquidato con la sintesi e la semplicità di cui sopra, è sufficiente per introdurre che in Italia gli stipendi sono “da fame”.

Il costo della vita cresce

Aumenta il costo delle case. Aumenta il prezzo degli affitti. Aumenta il conto della spesa. Solo una cosa resta immobile, congelata nel tempo: la busta paga. Il potere d’acquisto si erode sotto i nostri occhi: i 50 euro che cinque anni fa riempivano un carrello, oggi bastano a malapena per una busta. L’olio di qualità viaggia verso i 13 euro, la pasta supera i 3 euro al chilo e fare il pieno di benzina è ormai un lusso. Ma chi punta il dito solo contro l’inflazione sta guardando l’onda e non la marea che la genera. Il problema è sistemico e il confronto con i nostri vicini europei è spietato. Negli ultimi 30 anni, a un loro +30 per cento di crescita salariale corrisponde un nostro -2,9 per cento. Il risultato è che i giovani di oggi rischiano di essere la prima generazione, nella storia recente, più povera di quella dei propri nonni. Per quasi metà di loro, con 1000 euro netti al mese, l’orizzonte si restringe all’affitto di una stanza a Milano o a Roma. Progetti come un mutuo, una famiglia, dei figli non sono sogni difficili, ma pura e semplice fantascienza.

Perché i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa

L’analisi economica ufficiale riconduce questo fenomeno a un concetto chiave: la produttività, ovvero la capacità di generare valore in una data unità di tempo. Su questo fronte, l’Italia registra da decenni una delle performance peggiori tra le economie avanzate. Questa stagnazione ha una conseguenza diretta: la fuga dei talenti. Meno giovani significa meno spinta innovativa e un rallentamento del ricambio generazionale, condannando il Paese a una pericolosa immobilità.

L’idea di fondare l’economia nazionale unicamente sul patrimonio turistico, per quanto allettante, si scontra con la natura stessa di questo settore. È un’industria fragile, caratterizzata da una forte stagionalità e da una domanda di lavoro a basso valore aggiunto (ristorazione, logistica, servizi alla persona), dove gli stipendi sono strutturalmente bassi. Questa debolezza è aggravata dalla scarsità di grandi aziende in Italia. Quelle pochi esistenti, anziché investire nella formazione a lungo termine, spesso preferiscono sfruttare il bacino di giovani con stage sottopagati o gratuiti, privilegiando il beneficio immediato alla crescita futura. Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta: fuga di cervelli, calo dell’innovazione, compressione dei salari e aumento dello sfruttamento.

La produttività ferma

Dal 2008 ad oggi, il potere d’acquisto degli stipendi italiani si è ridotto di quasi il 9 per cento. In termini pratici, questo significa che entrare oggi in un negozio con lo stipendio di 15 anni fa equivale a uscirne con un carrello molto più vuoto. Nello stesso periodo, in Francia e Germania, gli stipendi reali sono invece cresciuti del 14 per cento. Un divario che definisce due mondi economici diversi. Non si tratta di individuare un singolo colpevole, ma di riconoscere le crepe di un intero sistema. I fattori sono molteplici e interconnessi: dalla bassa produttività alla cronica assenza di investimenti in innovazione e formazione. Dall’inefficacia dei sindacati a un cuneo fiscale che agisce come un macigno: su 1.000 euro di costo per l’azienda, 471 finiscono in tasse. E il problema non è l’aliquota in sé. Nazioni come Francia, Olanda e Germania hanno una pressione fiscale simile, ma la sostengono con una produttività superiore che permette di pagare stipendi più alti. A questo si aggiunge l’effetto perverso del fiscal drag: un meccanismo crudele per cui un piccolo aumento di stipendio, invece di essere un premio, viene eroso da un passaggio a scaglioni fiscali più alti.

Università, lavoro e mismatch: le scelte difficili dei giovani

Terminato il percorso scolastico obbligatorio, per i giovani e le loro famiglie inizia la vera sfida. L’università rappresenta un investimento oneroso che scoraggia molti, contribuendo a uno dei tassi di laureati più bassi d’Europa. Questa scelta è spesso alimentata da una diffusa sfiducia: a cosa serve un titolo di studio se l’ingresso nel mondo del lavoro è comunque segnato da precarietà e bassi salari? Eppure, questa è una valutazione miope. I dati dimostrano che, nel lungo periodo, un laureato guadagna in media il 30 per cento in più e ha maggiori probabilità di trovare un’occupazione stabile. Tuttavia, questo vantaggio è quasi invisibile all’inizio della carriera, un periodo in cui, con o senza laurea, la retribuzione è spesso inadeguata e lo sfruttamento diffuso. Mentre il sistema formativo fatica a tenere il passo, il mercato del lavoro globale si trasforma, richiedendo professioni e competenze tecniche inesistenti fino a pochi anni fa.

In Italia si è creato così uno squilibrio strutturale: un’abbondanza di laureati in alcuni settori a fronte di una carenza critica di profili tecnici e scientifici. È il cosiddetto mismatch tra domanda e offerta, che lascia centinaia di posti di lavoro vacanti e, al tempo stesso, un numero altrettanto alto di giovani disoccupati. Qui emerge il paradosso più stridente. Da un lato, l’Italia figura tra le prime dieci economie del mondo per Prodotto Interno Lordo. Dall’altro, questa ricchezza aggregata non si traduce in benessere diffuso: non arriva nelle tasche dei cittadini. Il PIL, infatti, è un indicatore che, se non analizzato in profondità, può essere ingannevole. L’esempio dell’India è calzante: una nazione con un PIL enorme, ma con sacche di povertà diffuse e profonde. La ricchezza sulla carta è una cosa, la realtà quotidiana un’altra.

PIL e PIL pro capite

Il Prodotto Interno Lordo, da solo, offre una visione parziale del benessere di un Paese. Per una fotografia più fedele, è necessario esaminare il PIL pro capite, l’indicatore che misura la ricchezza media generata da ogni singolo cittadino. Ed è qui che la prospettiva cambia drasticamente: nazioni come Svizzera, Belgio e Olanda ci superano nettamente. L’Italia si scopre così un Paese con un grande potenziale umano, ma con una capacità inferiore di trasformarlo in ricchezza individuale. Per usare una metafora, è come una classe molto numerosa i cui risultati medi, tuttavia, sono inferiori a quelli di altre classi, magari meno affollate ma complessivamente più performanti.

Risparmio e stagnazione economica

L’Italia vanta uno dei tassi di risparmio privato più alti d’Europa, secondo solo alla Spagna. Questa propensione all’accumulo, tuttavia, non deriva da una particolare abilità finanziaria o da un fiuto per gli investimenti, ma da un sentimento diffuso di paura e sfiducia. Questa liquidità, spesso tenuta ferma sui conti correnti, agisce come un freno a mano tirato sull’intera economia. Meno consumi si traducono in minori ricavi per le imprese, che a loro volta riducono gli investimenti e le assunzioni, contribuendo a mantenere bassi i salari. Si innesca così un circolo vizioso dal quale è difficile uscire: un meccanismo lento e implacabile che si autoalimenta.

L’Italiano ha le mani d’oro

È un fatto incontestabile: l’Italia eccelle nella produzione manifatturiera. Purtroppo, questa si colloca esattamente nel punto meno redditizio della catena del valore globale. Una teoria economica, la “smiling curve” (la curva del sorriso), illustra perfettamente questo paradosso: i profitti maggiori si concentrano all’inizio del processo (ricerca, design, innovazione) e alla fine (marketing, brand, distribuzione). Al centro, dove si trova la produzione vera e propria, i margini sono minimi. E l’Italia, da decenni, è specializzata proprio in questo segmento.

La nostra produttività, un tempo motore del boom economico, oggi appare “imbalsamata”. Negli anni ’60 e ’70, quando le piccole officine familiari diventavano colossi globali grazie a genio e coraggio imprenditoriale, eravamo all’avanguardia mondiale. Oggi siamo bloccati in un modello economico che non è più competitivo. Il tessuto produttivo italiano è infatti una galassia di micro-imprese: il 95 per cento delle aziende ha meno di 10 dipendenti. Questa frammentazione limita la crescita: un dipendente di una grande azienda genera in media 100.000 euro di valore, contro i 30.000 di uno in una piccola impresa. Piccole imprese, quindi, significano inevitabilmente piccoli stipendi. Su questo terreno già fragile si è abbattuta la concorrenza di giganti come Cina e India, capaci di produrre beni a costi bassissimi.

La battaglia per la sopravvivenza su mercati globali

Mentre loro avanzavano, noi siamo rimasti immobili, senza investire a sufficienza in ricerca e innovazione per spostarci verso le parti più nobili della smiling curve. A questo si aggiunge la debolezza della domanda interna: la scarsa fiducia spinge gli italiani a risparmiare invece che a spendere, costringendo il nostro sistema a basarsi quasi interamente sull’export.

Di conseguenza, il nostro acclamato Made in Italy – macchinari, moda, mobili – deve combattere ogni giorno una battaglia per la sopravvivenza su mercati globali spietati. Ogni nostro prodotto, frutto di un talento spesso sottovalutato, deve affrontare non solo i tradizionali rivali tedeschi e americani, ma anche la concorrenza agguerrita di Cina, India, Vietnam e Pakistan.

Il punto debole del Made in Italy

Per competere sui mercati globali, l’Italia si trova di fronte a un bivio strategico. Da un lato, c’è la via maestra: puntare sull’eccellenza assoluta, sulla qualità che trasforma un prodotto in un capolavoro. Dall’altro, si apre la scorciatoia della compressione dei costi, il cui lato oscuro è il sacrificio di chi quei prodotti li crea. È qui che gli stipendi diventano una leva critica: per un’azienda senza le risorse per investire in ricerca e innovazione, abbassare i salari è il modo più rapido e immediato per ridurre i costi di produzione e guadagnare un margine di competitività sull’export.

Questa scorciatoia, tuttavia, è un’illusione che porta lontano da un futuro sostenibile. Attiva infatti un circolo vizioso implacabile: salari bassi deprimono i consumi interni, frenando l’intera economia nazionale. Peggio ancora, erodono la motivazione dei lavoratori, cristallizzando la produttività in una stasi perenne. E senza crescita di produttività, è logicamente impossibile che vi sia una crescita salariale. Le conseguenze di questo modello si riversano sulla vita quotidiana dei cittadini. Le buste paga, ferme da decenni, vengono erose da affitti e mutui, rendendo progetti come l’acquisto di una casa o la formazione di una famiglia una corsa a ostacoli insormontabile. L’Italia si ritrova così vittima di un paradosso: un Paese che, pur avendo in mano l’asso del genio creativo, sceglie la strategia perdente, preferendo margini a breve termine a un benessere diffuso. È un’Italia che si vede ricca allo specchio, ma che è povera nelle tasche di chi ne costituisce la forza produttiva. Un modello che deve trovare il coraggio di cambiare, prima che sia troppo tardi.

Dividendi in crescita, stipendi in stallo: chi ci guadagna?

Emerge qui una contraddizione stridente: mentre gli stipendi ristagnano, la ricchezza prodotta dalle aziende sembra prendere un’altra direzione. Quasi 52 miliardi di euro sono stati distribuiti in dividendi solo tra il 2022 e il 2023. La domanda sorge spontanea: perché questa enorme ricchezza non viene redistribuita in modo più equo anche tra i lavoratori? Questo interroga profondamente il ruolo dei sindacati. Un tempo protagonisti delle principali conquiste sociali, oggi appaiono indeboliti, quasi paralizzati, badano solo a offrire falsi servizi attraverso i CAF con tutti i limiti della scarsa competenza di chi ci mettono a lavorare quando AG.Entrate potrebbe offrire gli stessi servizi con una competenza certa e, soprattutto, col merito dei titoli. Il risultato è un sistema di contrattazione collettiva inceppato, con rinnovi che arrivano con anni di ritardo, lasciando milioni di lavoratori senza tutele adeguate contro l’inflazione. È così che si rompe il patto sociale fondamentale di una società moderna: l’ascensore sociale si blocca. Il meccanismo che dovrebbe garantire una mobilità verso l’alto, basata sul merito e sul lavoro, non funziona più. La conseguenza è una società immobile, dove la condizione di partenza determina il destino e chi nasce in una famiglia a basso reddito, rischia di rimanere tale.

Quindi che fare?

Nessuna soluzione politica appare all’altezza della sfida. Meno tasse, salario minimo: sono bandiere da sventolare in campagna elettorale, non una strategia per il futuro. La vera rivoluzione sarebbe investire massicciamente in formazione, competenze digitali e creare finalmente un ponte tra università e imprese, cosa che oggi suona ancora come fantascienza. Soprattutto alleggerire anche il precariato, è un problema, ma è anche vero e proprio terreno bituminoso che è intasato di competenze obsolete e, ancora peggio, di assenza totale di titoli. Sono un tappo per chi ha studiato per svolgere la funzione, inutile citare il settore dell’istruzione che è uno degli squarci nella tubatura dello Stato. In attesa che la politica si svegli, la vera speranza è riposta nei giovani e nella loro volontà di formarsi. L’arma migliore per ribaltare questa situazione è la competenza. Intelligenza artificiale, robotica, automazione: sono queste le chiavi per trasformare l’Italia in un’economia della conoscenza, dove si compete con le idee, non solo con le braccia. Bisogna tornare a rischiare, a innovare.

Mezzogiorno: il tesoro dimenticato

E mentre si gioca questa partita per il futuro, c’è un gigante addormentato da risvegliare subito: il Mezzogiorno. È il nostro tesoro a cielo aperto, un paradiso culturale e naturale che può e deve diventare il motore di una rinascita. Significa spingere al massimo sul turismo di qualità, valorizzando ogni sito archeologico e ogni borgo storico. Significa costruire le infrastrutture necessarie perché sia più facile scoprire quello che abbiamo a due passi da casa, invece di cercarlo in altri continenti. Significa proteggere l’ambiente per creare oasi di pace e bellezza. Significa, soprattutto, scommettere sulle comunità, dare loro gli strumenti per far rientrare i figli che sono dovuti emigrare e soffocare quella rassegnazione malmostosa di chi, ormai sazio, ha smesso persino di pensare. L’Italia può recuperare e rimodularsi appoggiandosi al Mezzogiorno, tutt’altro che un semplice traghettatore.