
In Israele nasce Chameleon First Response, l’organizzazione che aiuta i soldati con PTSD e le loro famiglie a superare i traumi della guerra
PTDS: un acronimo che rappresenta il marchio, impresso a fuoco nella carne di chi ha combattuto una guerra e che non riesce a scrollarsi di dosso paure e traumi, ma anche ricordi che vorrebbe avere cancellato. E’ lo stress post traumatico, che intasa le statistiche mediche dei reduci. Uomini e donne che spesso non riescono a cancellare completamente dalla loro vita il ricordo di quel che hanno visto o di cui sono stati protagonisti. Un Paese, in guerra sin dal momento della sua nascita, che fa quotidianamente i conti con passato e presente, è Israele. Di reduci ne conta tantissimi e altri ancora ne conterà in un futuro sin troppo vicino, con gli orrori che continuano a manifestarsi a pochi chilometri dalle sue città, ricche di vita. Ma il discorso sui reduci che non riescono a sanare le ferite psicologiche della guerra è comune a molti Paesi, che l’affrontano in modo diverso, avendo sempre come obiettivo l’aiuto a chi ha difeso, in divisa, il suo Paese.
Come Chameleon First Response aiuta i reduci in Israele
In Israele è nata Chameleon First Response, un’organizzazione no-profit dedicata al supporto dei soldati affetti da PTSD e delle loro famiglie. A fondarla è un ex soldato, Sean P., che si è arruolato a 18 anni, ha fatto parte di una unità antiterrorismo d’élite, ha lavorato sotto copertura e che, lui come molti altri, ha sperimentato in prima persona l’enorme peso psicologico delle operazioni in prima linea. Ora ha rivolto la sua attenzione a coloro con cui un tempo ha prestato servizio. In particolare ai soldati d’élite che spesso sono i meno propensi a chiedere aiuto, anche quando ne hanno più bisogno. Dismessa la divisa, Sean si rese conto che i soldati delle unità specializzate in azioni ad altissimo rischio non ricevevano abbastanza supporto, nonostante mostrassero chiari segnali di disagio psicologico. Alla domanda sul perché non chiedessero un aiuto, Sean rispose semplicemente: “Ego”, raccontando che molti nelle unità d’élite pensavano di essere dei “superuomini” e che far parte di un’unità speciale significava che “non avrebbero dovuto avere quel genere di cose, quel genere di fattori scatenanti”.
Il silenzio dei soldati d’élite: “Ego e vergogna”
Per i soldati, per lo più uomini addestrati a mantenere la forza e la disciplina in operazioni ad alto rischio e che si sono costruiti una reputazione e un’identità essendo i “migliori tra i migliori”, ammettere cose come bagnare il letto e avere incubi è difficile. Scegliendo di dare il buon esempio, Sean ha ammesso che quelli erano gli specifici sintomi del PTSD con cui lui stesso aveva lottato.
L’esperienza di Sean non è unica. Un recente sondaggio dell’Università di Tel Aviv ha rilevato che oltre un riservista su 10 che ha prestato servizio a Gaza ha manifestato sintomi multipli di PTSD , circa il doppio rispetto ai dati del 2019. Vedere altri combattere gli stessi sintomi durante il servizio ha dato a Sean la forza di affrontare i propri, un’esperienza che ora sfrutta per aiutare gli altri. “Dal 7 ottobre dormo con i miei amici e ho capito che soffrivano di disturbi simili“, ha raccontato. “Urlano nel cuore della notte. Bagnano il letto. Hanno molti fattori scatenanti; ci sono così tante cose che possono scatenarli, ad esempio un rumore o un odore particolare“.
Una missione personale diventata collettiva
Vivere con un disturbo da stress post-traumatico non curato è già abbastanza difficile, ma per Sean è stato un tragico incidente a spingerlo ad agire con urgenza. Uno dei suoi amici più cari, un commilitone, sta scontando una pena in prigione per un omicidio commesso durante un episodio di PTSD. L’uomo, che aveva ricevuto una diagnosi documentata prima dell’accaduto, è stato accoltellato durante una lite stradale e ha reagito sparando più di 10 colpi al suo aggressore. Sean ha detto che il suo amico, gravemente ferito e disorientato, in quel momento credeva di stare eliminando una minaccia terroristica. “Ora, questo è un uomo che conosco e che non ha modo di fare del male a qualcuno senza motivo. Quindi l’unica cosa che lo ha spinto a farlo è stata un fattore scatenante per lui. Quando è stato accoltellato, ha visto un terrorista. Non importa che fosse nel cuore di Israele, che fosse nella sua città, nella sua città natale“, ha spiegato Sean. “Ovviamente, non era un terrorista; era un criminale. Ma lui ha visto nei suoi occhi un arabo che lo aveva accoltellato. Ha visto solo un terrorista. Da allora, è in prigione“.
Sean ha fondato Chameleon First Response nella speranza che nessun altro soldato perda la propria libertà o la propria vita a causa di una situazione evitabile.
Un progetto che include anche le famiglie
Ora la gente conosce il suo nome e la sua organizzazione unità, e questa familiarità può fare molto per abbattere i confini. Chameleon First Response ha anche lavorato per coinvolgere interi team alle sessioni, facendo affidamento sulla natura fraterna e sui legami che si formano in combattimento. ”Moltissimi soldati stanno perdendo la famiglia, la moglie e i figli. I figli cercano di non avvicinarsi al padre, perché il padre non è più la stessa persona di una volta, e questo ci turba molto. Quindi, ciò che l’organizzazione sta facendo è aiutare, prima di tutto, il soldato stesso, il combattente, e anche la famiglia”.
Chameleon First Response ha stabilito la sua sede presso Danny’s Farm, un centro riabilitativo che offre trattamenti olistici come terapia equina, musicoterapia e arteterapia a sud di Tel Aviv. Ora offrono terapia e supporto a circa 300 soldati e alle loro famiglie. Oltre alla terapia, i soldati e le loro famiglie, attraverso impegnativi viaggi notturni nella natura selvaggia, nella diaspora per parlare alle comunità ebraiche della realtà del conflitto ed esperienze congiunte. Che mirano a creare un senso di comunità e routine e in questo modo possono godere degli stessi legami fraterni costruiti nell’esercito. I soldati impegnati sul campo possono inoltre ricevere dall’organizzazione vestiario, equipaggiamento protettivo e forniture mediche.
L’aiuto delle aziende: il caso El Al
Sean ha raccontato che molte organizzazioni hanno iniziato a indirizzare le famiglie a Chameleon First Response, poiché sono poche, se non addirittura nessuna, le organizzazioni che supportano la famiglia nel suo insieme e non solo il soldato affetto da PTSD. Sean ha spiegato che Chameleon First Response ha toccato anche El Al, la compagnia aere di bandiera di Israele, dove lui lavora. El Al “capisce la situazione… Hanno così tanti dipendenti che vengono richiamati in servizio di riserva” – piloti, tecnici. Quindi la necessità di supportare i soldati della riserva è “molto evidente”, ha detto Sean, aggiungendo che l’azienda gli ha permesso di portare alcuni dei suoi dipendenti alla Danny’s Farm durante l’orario di lavoro.
“Mi sono reso conto che io e molti dei miei colleghi non siamo dell’umore giusto per tornare al lavoro. Il loro cervello e la loro mente sono ancora a Gaza, e preferiscono rimanere in servizio piuttosto che tornare al lavoro“, ha detto Sean, parlando della difficoltà di riadattarsi alla vita civile. “Quando ho visto che non ero l’unico, mi sono rivolto al mio manager alla El Al e gli ho detto che era quello che stavo facendo e che volevo portare una ventina di ragazzi alla Danny’s Farm e fare delle sessioni lì… una volta alla settimana, per tre ore ogni volta”. Oltre a dare ai propri dipendenti il tempo di recarsi alla Danny’s Farm, la compagnia aerea ha anche donato diversi biglietti affinché Sean e altri potessero recarsi negli Stati Uniti, dove sono apparsi in una puntata di una famosa trasmissione televisiva di divulgazione medica, quella del ”Dr. Phil”, per parlare del loro lavoro e della realtà della vita in Israele.
Prepararsi a un Israele postbellico
Parlando di come il Paese debba prepararsi a un Israele postbellico, Sean ha condiviso con passione: “L’intero Paese… è in uno stato di trauma. Il Ministero della Difesa, il Ministero della Salute, le Forze di Difesa israeliane e l’intero governo devono capire che abbiamo a che fare con qualcosa di enorme. Ci sono persone che si trovano in una situazione difficile, che hanno bisogno di curare i problemi che portano con sé nella mente, nell’anima“. I soldati “hanno fatto quello che dovevano fare, proteggere il nostro Paese. Eppure, abbiamo visto cose che l’essere umano non dovrebbe vedere. Le nostre anime sono molto fragili e ci sono molte cicatrici che possono essere lasciate su di noi”.