
L’UE spinge sul riarmo: debito in aumento, rischio tagli a sanità e pensioni. Un’analisi sui veri costi e sulla sostenibilità economica
di Luca Lippi
Mentre gli indici di borsa registrano performance positive, una domanda sorge spontanea: qual è il motore di questa crescita in un’economia globale ancora fragile? Parte della risposta risiede in una massiccia iniezione di liquidità, frutto di un accordo tra le nazioni occidentali per aumentare il debito pubblico con un obiettivo preciso: il riarmo strategico. Ma a quale prezzo per i cittadini? Un’analisi dei costi dell’hardware militare rivela già oggi disparità notevoli, sollevando dubbi sulla sostenibilità e l’efficienza di una spesa destinata a pesare per decenni sulle finanze pubbliche.
Un precedente economico e le sue conseguenze
Il meccanismo di creazione di debito per finanziare spese straordinarie a beneficio di specifici settori industriali non è nuovo. Un precedente recente si è visto durante la pandemia, con gli investimenti nel settore farmaceutico. Uno degli effetti collaterali di queste manovre è stato l’impatto sull’inflazione, come dimostra il picco registrato nel 2022. A questo proposito, è importante chiarire un punto spesso frainteso: quando si parla di “calo dell’inflazione”, non si intende una diminuzione dei prezzi, ma solo un loro aumento più lento rispetto al passato. Gli incrementi di costo già assorbiti dai consumatori tendono a diventare permanenti. Se gli stipendi non crescono allo stesso ritmo, si innesca un’erosione del potere d’acquisto per famiglie e lavoratori. In estrema sintesi è un prelievo forzoso assai più impattante di quello del 1992.
L’incognita dei costi reali
Per comprendere l’effettiva portata economica dell’impegno, sottoscritto anche dall’Italia, di aumentare le spese militari, è necessario fare chiarezza sulle cifre. Il dibattito pubblico, infatti, è spesso confuso da dati presentati in modo parziale. Il primo passo è distinguere tra la spesa totale e l’aumento incrementale. Ipotizzando per semplicità un PIL di 2.000 miliardi di euro. La spesa attuale si attesta attorno all’1,5 per cento del PIL, circa 30 miliardi di euro annui. L’obiettivo finale fissato in alcuni consessi è del 5 per cento del PIL, che corrisponderebbe a 100 miliardi di euro annui.
L’aumento netto sarebbe quindi di 70 miliardi di euro all’anno
Questa distinzione è cruciale: politicamente, è più facile comunicare un “aumento di 70 miliardi” che una “spesa totale di 100 miliardi”, sebbene sia quest’ultima a rappresentare l’onere reale per il bilancio dello Stato. A complicare il quadro interviene il fattore tempo. L’obiettivo va raggiunto “entro il 2035”, una scadenza che non definisce una traiettoria precisa. Per capire l’impatto, consideriamo due scenari opposti: un aumento immediato e costante della spesa al 5 per cento comporterebbe un costo aggiuntivo di 700 miliardi di euro in dieci anni. Al contrario, un aumento posticipato all’ultimo anno utile comporterebbe un aggravio di “soli” 70 miliardi.
Lo scenario più realistico
Nessuno dei due estremi è probabile. Lo scenario più plausibile è quello di un aumento graduale della spesa. In un modello di crescita lineare, il costo aggiuntivo cumulato si posizionerebbe a metà strada tra i due estremi. È quindi ragionevole stimare un extra-costo complessivo di circa 350 miliardi di euro per il prossimo decennio. Questa cifra offre una chiave di lettura per interpretare correttamente il dibattito: chi parla di 70 miliardi si riferisce probabilmente all’aumento di un singolo anno a regime, mentre chi evoca i 700 miliardi descrive lo scenario peggiore. La stima di 350 miliardi rappresenta l’ordine di grandezza più realistico dell’impegno finanziario che l’Italia si appresta ad affrontare.
Il bivio della spesa pubblica
Giungiamo così all’aspetto più critico: la sostenibilità finanziaria. Un onere aggiuntivo di 350 miliardi di euro impone una domanda fondamentale: come verrà finanziato? Le rassicurazioni politiche sulla salvaguardia delle “priorità” del Paese devono essere valutate alla luce di questa realtà. Le alternative sono solo due. Tagli alla spesa pubblica: le risorse verrebbero reperite riducendo i fondi destinati ad altri settori, come la sanità, l’istruzione o il sistema pensionistico. Aumento del debito pubblico: l’onere verrebbe scaricato sulle generazioni future, aggravando una situazione di bilancio già precaria.
Una questione di efficienza e trasparenza
Di fronte a questo scenario, la discussione non può più limitarsi al se sia giusto o necessario aumentare le spese militari. La domanda che i cittadini hanno il diritto di porre, e a cui la politica ha il dovere di rispondere con trasparenza, è un’altra: chi pagherà il conto? E cosa siamo disposti a sacrificare in cambio? Di fatto l’inflazione che inevitabilmente si innescherebbe “taglierebbe” il potere di acquisto del debito, di fatto, diminuendone “la corposità”, quindi il debito non sarebbe un problema. Il problema sarebbero gli interessi da pagare che graverebbero sulle generazioni future per diversi lustri.
Il carro armato tedesco Leopard 2A8 costa 29 milioni di euro, mentre l’equivalente carro russo, il T-90, ne costa solo quattro e quello cinese, il Type 99A, ne costa 2,3. La musica non cambia con i semoventi di artiglieria: quello tedesco, il PzH 2000, costa 17 milioni di euro; quello coreano, il K9 (fra l’altro appena comprato dalla Polonia), costa 3 milioni di euro; e quello russo, il 2S19 Msta, un milione e mezzo di euro. Ci
sarà – almeno stavolta – qualcuno che solleverà una questione pratica sulla razionalizzazione dei costi, oppure l’obiettivo sarà la solita “mangiatoia” – o trasferimento di ricchezza a favore dei soliti – tanto paga “Pantalone”?