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C’è una Italia che va.

Ma che il mainstream non riconosce

di Pietro Romano

In un mondo normale l’intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale dal professor Giulio Sapelli avrebbe avuto una eco, mediatica e politica, enorme. Invece, la sua ricaduta si è sostanzialmente esaurita il giorno stesso dell’uscita in edicola.

L’economista e storico dell’economia – uomo di solida preparazione, notoriamente senza peli sulla lingua e dalla schiena dritta – ha infatti infranto più di qualche tabu. Ma l’informazione mainstream ovviamente, ha fatto calare il silenzio. In soldoni, Sapelli ha affermato che la forza trainante dell’Italia è la manifattura e che i distretti produttivi continuano a rimanere fondamentali per l’economia del nostro Paese. Un Paese che tiene il punto grazie all’eroismo di chi, ogni giorno, si sveglia e tira su la saracinesca. Proprio la presenza capillare di piccole e medie imprese fa la differenza con gli altri membri dell’Unione europea pari taglia – dalla Germania alla Francia, dalla Spagna alla Polonia – e assicura una marcia in più all’Italia. “Pensi – ha detto Sapelli all’intervistatore Raffaele Marmo – a che punto saremmo se la borghesia compradora dei grandi gruppi finanziari e industriali non avesse chiuso o trasferito gli asset all’estero e se i nostri giovani fossero davvero preparati a diventare operai o tecnici specializzati”. L’Italia avrebbe potuto fare ancora di più se avesse conservato “le grandi imprese pubbliche con gli uomini che le dirigevano”.

La lucidità di Sapelli non ha bisogno di chiose. La sua diagnosi è da “copia-e-incolla”. Magari si può approfondire la parte in cui appella come “eroismo” l’attività “di chi ogni giorno si sveglia e tira su la saracinesca”. Insomma, la realtà rappresentata da artigiani, micro e piccole imprese.

Quando si parla di questo mondo si tende a dimenticarne gli aspetti umani e sociali, oltre che le sue dimensioni. Le micro imprese italiane, quelle con meno di dieci dipendenti insomma, sono poco meno di quattro milioni, vale a dire il 95 per cento circa dell’intera platea imprenditoriale nazionale, con 7,3 milioni di addetti e generano un valore aggiunto di oltre 825 miliardi, quasi un quarto del totale. Dalla Banca d’Italia in poi, purtroppo, non sembra che questi numeri abbiano il potere di sensibilizzare i piani più alti delle istituzioni. A voler essere buoni si tratta di pigrizia mentale, che addirittura nasconde i punti di forza delle piccole imprese nel sociale. Due esempi in questo senso, messi in luce dal Centro studi CNA, arrivano dalle micro imprese. Nelle aziende fino a nove addetti il differenziale nelle retribuzioni tra uomini e donne è praticamente inesistente. Nella stessa tipologia d’imprese, inoltre, quasi un quarto dei dipendenti conta meno di trent’anni. Ad affezionare i più giovani alle micro imprese probabilmente anche i contratti che vengono applicati: più di tre quarti dei giovani assunti usufruisce di un contratto a tempo indeterminato.

I pregiudizi sulle piccole imprese, però, fanno opinione, riescono addirittura a prevalere e a comprimere il potenziale di crescita e di sviluppo di artigiani, micro e piccole imprese. A livello generale la normativa è costruita sulle imprese grandi, infatti, una realtà residuale purtroppo del nostro sistema produttivo. Tempo è, invece, di adattare il complesso e articolato quadro legislativo non a modelli astratti ma alla realtà imprenditoriale nazionale. E se non è quella sognata dalla classe dirigente, politica e non, è tempo che si svegli. Quanto alla dimensione delle imprese, molte rimangono piccole non per scelta propria. Chi ha visto, infatti, misure veramente efficaci per farle crescere? Anche su questo fronte la politica dovrebbe finalmente battere un colpo.