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TUMORI E FATTORI AMBIENTALI

Tara Winstead

La ricerca va verso una “cronicizzazione” della patologia oncologica, declassandola in patologia non più mortale

di Danilo Quinto

Antonio Giordano si è laureato con il massimo dei voti in Medicina a Napoli nel 1986, ha conseguito la specializzazione in Anatomia Patologica presso l’Università di Trieste e subito dopo si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Cold Spring Harbor Laboratory, sotto la guida del premio Nobel James Watson, che insieme ad altri due Nobel, Francis Crick e Maurice Wilkins, rivelò la struttura del DNA.

Il prof. Giordano ha una vasta esperienza internazionale nel campo della genetica del cancro, della regolazione del ciclo cellulare e degli studi sulla terapia genica. Ha pubblicato più di 650 articoli su riviste scientifiche di rilevanza internazionale, detiene diversi brevetti internazionali ed ha ricevuto più di 40 premi nazionali ed internazionali per il suo contributo alla ricerca sul cancro. È professore ordinario per chiara fama nel settore scientifico-disciplinare di Anatomia Patologica presso il Dipartimento di Biotecnologie Mediche dell’Università degli Studi di Siena e professore di Biologia Molecolare presso la Temple University di Filadelfia. È Direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine (organizzazione non-profit che opera nei settori della ricerca clinica traslazionale) e del Centro di Biotecnologie nel College of Science and Technology presso la Temple University di Filadelfia. In Italia collabora anche con una linea di ricerca del Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano (INT_Fondazione G.Pascale/CROM). Nel luglio del 2009 è risultato il terzo per numero di pubblicazioni nella lista Laboratory Heads by. Tra le sue molteplici attività di ricerca vi è quella volta all’attivismo nell’ambito della denuncia dei fattori ambientali causa di un incremento delle patologie tumorali. Ha infatti legato la sua carriera di ricercatore a quella di divulgatore scientifico, impegnandosi soprattutto nel rendere noto il collegamento tra l’ambiente inquinato dai rifiuti tossici e l’aumento dei rischi di insorgenza delle patologie croniche.

È stata importante per la sua formazione l’esperienza internazionale?

Dedicare la propria vita alla ricerca scientifica richiede impegno, perseveranza, sacrificio e non sempre le ore che vengono impiegate riescono ad apportare i risultati sperati. “Fare ricerca” negli Stati Uniti e formarmi al Cold Spring Harbor Laboratory, sotto la guida del premio Nobel Watson, mi ha dato le opportunità e le “basi giuste”, per poter affrontare il percorso e le sfide che mi si ponevano davanti. In qualità di Direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular medicine di Filadelfia, ho potuto approfondire la mia esperienza nel campo della genetica del cancro, della regolazione del ciclo cellulare e degli studi di terapia genica. Sempre in America, come membro del board organizzativo del Niaf (National Italian American Foundation) mi sono occupato della stesura di una legge per implementare l’assistenza sanitaria degli italiani residenti negli Stati Uniti.

Sono consapevole che l’esperienza americana sia stata fondamentale per i miei studi scientifici e lo sia tuttora, per il forte impulso che il respiro internazionale dà alle scoperte scientifiche. Oggi, mi divido tra l’America e l’Italia, insegno Anatomia Patologica presso il Dipartimento di Biotecnologie Mediche dell’Università degli Studi di Siena, collaboro con il Centro Ricerche Oncologiche di Mercogliano (Int_Fondazione G.Pascale/CROM) e ho partecipato attivamente alla stesura del PNRR, ponendo un focus sul rapporto qualità e ambiente, per rendere noto il collegamento tra inquinamento, i rifiuti tossici e l’ aumento dei rischi di insorgenza di patologie croniche.

Quali sono stati gli sviluppi della ricerca sul cancro dagli anni della sua specializzazione in Anatomia patologica ad oggi?

Per quanto riguarda la ricerca in ambito oncologico, ci troviamo dinanzi ad un indubbio miglioramento del progresso scientifico che ci offre la possibilità di studiare migliaia di geni e di monitorarne l’espressione e le relative conseguenze. L’avanzare delle tecnologie si è rivelato fondamentale nell’era in cui ci troviamo della terapia personalizzata e della medicina di precisione. Oggi sappiamo che per aumentare il successo di una terapia è necessario diagnosticare quanto più precocemente possibile la neoplasia ed individuare caratteristiche peculiari del tumore che lo rendono responsivo o meno a determinati trattamenti.

A che punto sono gli studi sulla genetica del cancro, della regolazione del ciclo cellulare e della terapia genica, rispetto alle quali lei è protagonista a livello mondiale ?

Le mie ricerche si collocano in questi ambiti, sono atte ad individuare marker diagnostici, prognostici e terapeutici. Oggi, è ben noto che il tumore è una malattia “multifattoriale” e che tra le varie cause del suo sviluppo c’è anche l’esposizione ad inquinanti ambientali. Mi occupo di studiare precise “alterazioni molecolari”, al fine di identificare nuove strategie terapeutiche mirate, per il mesotelioma ed il tumore al polmone, la cui eziologia è correlata all’esposizione ad inquinanti ambientali. Contestualmente, da anni mi sono interessato alla situazione in Campania, nota come “Terra dei fuochi”, incoraggiando studi sul biomonitoraggio, per incentivare una attività di bonifica e provare a ridurre l’incidenza delle patologie correlate agli insulti ambientali provenienti dal territorio e dai roghi tossici. Il futuro della ricerca oncologica e l’applicazione delle mie scoperte, che recentemente sono tradotte in strategie farmacologiche vincenti, attestano che siamo sulla strada giusta.

Quali sono i più importanti brevetti internazionali che detiene ?

L’individuazione e la clonazione del gene oncosoppressore RBL/p130, mi ha portato a focalizzare la mia ricerca verso i meccanismi di deregolazione del ciclo cellulare. Le applicazioni in ambito farmaceutico, come dicevo, e nella sperimentazione di terapie a contrasto dell’insorgenza e della cura delle neoplasie, mi rende particolarmente fiero del mio lavoro e del mio team internazionale di ricerca.

Tra i numerosi premi nazionali ed internazionali da lei ricevuti, quale le è più caro?

Tutti i premi rappresentano un traguardo, un riconoscimento. Mi sono particolarmente cari quelli ricevuti proseguendo le orme e gli studi avviati da mio padre, Giovan Giacomo Giordano.

La scienza riuscirà a debellare il cancro?

Mi sento di essere ottimista. Svariate tipologie di cancro oggi si curano con successo e all’attivo abbiamo l’aumento di terapie mirate a migliorare la qualità di vita del paziente oncologico, ciò fa virare la nostra ricerca verso una “cronicizzazione” della patologia oncologica, declassandola in patologia non più mortale.

Qual è il rapporto tra i fattori ambientali e le patologie tumorali? Può fornire i numeri statistici?

L’inquinamento atmosferico è responsabile di molte malattie comuni e patologie oncologiche, i numeri sono allarmanti, non c’è altro da aggiungere, ma da agire. La contaminazione ambientale da agenti potenzialmente nocivi per la salute umana è diventata una tematica di primaria importanza: il progresso industriale dei processi produttivi ha comportato un incremento di alcuni ordini di grandezza delle emissioni naturali di elementi come piombo, cadmio, mercurio, per cui la presenza di rifiuti tossici di scarto rappresentano la nuova criticità globale. La pericolosità delle polveri sottili dipende anche dal fatto che i metalli pesanti, gli isotopi radioattivi naturali e gli idrocarburi policiclici aromatici derivanti dalla combustione del carbon fossile tendono a concentrarsi nella frazione più sottile delle polveri, quella che non viene trattenuta dagli elettrofili, ma viene dispersa nell’atmosfera.

Lo IARC, l’Agenzia Internazionale della Ricerca sul Cancro, ha identificato più di 114 sostanze, diffuse a livello ambientale, come certamente cancerogene per l’uomo. Numerosi studi epidemiologici quindi, confermano la relazione tra ambiente e cancro, specie in presenza di criticità del territorio.

Quali interventi di carattere sociale e sanitario in ambito ambientale considera più urgenti da effettuare?

Sicuramente individuare e bonificare siti inquinati. Urgente è sottolineare in questo momento che la tutela ambientale è prioritaria al fine di contrastare lo sviluppo di patologie croniche, epidemie e pandemie. Inoltre, è necessario riorganizzare le strutture sanitarie in modo da poter essere in grado di fornire assistenza alla popolazione anche in situazioni critiche, tipo quelle già viste in Pandemia, e pianificare programmi di screening, per incentivare la prevenzione e l’informazione, per sensibilizzare la popolazione ad agire tempestivamente, ai primi sintomi, tutelando tutti i “soggetti a rischio” dall’esposizione agli inquinanti fino alla ospedalizzazione, quando necessaria.

IL PNRR, alla cui stesura è stato chiamato a collaborare, affronta queste tematiche?

La stesura ha richiesto un mio intervento volto alla sensibilizzazione verso il tema della tutela ambientale in correlazione con le patologie croniche e neoplastiche. L’idea è stata quella di implementare un programma di Sanità Pubblica Ecologica, focalizzata al biomonitoraggio dell’esposizione agli inquinanti, del suolo e dell’essere umano, e all’individuazione di nuove formule efficaci per una “strategia di prevenzione” primaria e secondaria, improntata sui “principi del Global Health”, in aree territoriali selezionate, e poi su tutto il territorio nazionale.

C’è un argomento che da tempo divide la comunità scientifica: i farmaci bloccanti della pubertà. Che ne pensa?

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), nell’aprile 2018, ha chiesto al Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), un parere circa l’uso “etico” della triptorelina, in modalità “diverse” dalle indicazioni iniziali, cioè l’utilizzo in campo oncologico ma non solo, utilizzandola in modalità off label per il trattamento della “disforia di genere”, negli adolescenti. È stato poi stabilito che questo farmaco sarà a carico del Servizio Sanitario Nazionale e questa notizia ha sollevato un vespaio circa il suo impiego e gli effetti collaterali e circa il processo reversibile o meno.

La Triptorelina fa parte della famiglia dei bloccanti ipotalamici, GnRH, una molecola che agisce sul sistema endocrino e, di fatto, “sospende” l’arrivo della pubertà, laddove la maturazione di un corpo “incongruente con l’identità percepita” dall’adolescente genera disagio e si manifesta in modo doloroso. Il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso ispirandosi “ad un approccio di prudenza, per situazioni selezionate e accuratamente, caso per caso”. Le operazioni che rendono un corpo fenotipicamente simile a quello cui la transizione lo dirige, sono molte e molto impattanti ed invasive, per questo in molti tra gli esperti si dicono favorevoli all’utilizzo del farmaco, bloccando lo sviluppo “temporaneamente”.

Il dibattito si è aperto proprio sulla reversibilità di tali impieghi. Infatti. Gli esperti che si sono espressi a favore, spingono su argomentazioni che spaziano dalla necessità di un impiego del farmaco per “abbattere il disagio psichico e la tendenza al suicidio dell’adolescente, implementando il supporto psicologico durante il trattamento, fino ad arrivare ad affermare che “il processo è reversibile” se durante la fase della sospensione farmacologica dei cambiamenti fisici, si palesasse un “ripensamento”.

Gli effetti della triptorelina sono diversi rispetto al corpo che l’assume: nelle adolescenti con un “corpo biologico” femminile, la triptotrelina ferma lo sviluppo delle mestruazioni e la crescita del seno, mentre negli adolescenti maschi, ferma la crescita dei peli, lo sviluppo dei testicoli e l’abbassamento della voce. I dati depongono per una crescita delle richieste di valutazione del trattamento, in base ad un cospicuo aumento del numero di adolescenti coinvolti nei processi di transizione, in tutto il mondo. Scientificamente va registrato il dato, per vagliare le cause di questo aumento, per capire bene il fenomeno e modularne le “modalità di accesso” solo per i richiedenti che ne abbiano necessità.

L’utilizzo di questi farmaci consente all’adolescente di avere uno “spazio di riflessione” più ampio, bloccando “temporaneamente” lo sviluppo e di mettere fine al disagio provocato dal sentire la propria identità di genere diversa dal sesso assegnato alla nascita. Di contro, il fronte avverso all’utilizzo dei “ bloccanti della pubertà” , tra cui ad esempio, l’endocrinologo Urs Eiholzer, invitano alla riflessione accurata perché queste terapie potrebbero causare sterilità ed effetti irreversibili. Sulla irreversibilità si è espresso Mattia Lepori, membro dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, mettendo in guardia su questo farmaco, la triptorelina, utilizzata in campo oncologico, sulle donne con diagnosi di tumore alla mammella, tra gli altri impieghi, aggiungendo che bisogna essere attenti alle reali esigenze dell’adolescente, alla sua concreta convinzione di percorrere la strada della transizione, in un Paese come la Svizzera in cui a 16 anni, un adolescente può decidere per sé.

Qual è la sua valutazione?

L’approccio scientifico deve andare “oltre” il fronte del sì e del no, dirigendosi alla valutazione migliore per ciascun paziente, tendendo al meglio nella previsione di ciò che rappresenta il rapporto “ rischio-beneficio”. Ascoltando molti adolescenti con diagnosi da disforia di genere, se ne comprende in buona parte la necessità di accesso al trattamento, ma in tutti gli altri casi, psicologi, genitori ed esperti devono utilizzare il “criterio della prudenza”, individuando “caso per caso” chi ne ha diritto, chi attraversa “solo una fase”, mettendo in guardia sui rischi i pazienti, non ultimo quello di uno studio scientifico che rileva una demineralizzazione del sistema osseo e che quindi individua nei pazienti trattati con “bloccanti della pubertà” questa conseguenza. I processi che derivano da trattamenti farmacologici devono essere “attenzionati” perché possano essere “realmente reversibili”, interrompendoli nella fase in cui questa scelta “è ancora possibile”. L’ascolto del paziente, le motivazioni, il raccoglierne la testimonianza e il disagio, ma soprattutto conoscerne la storia personale, è un imprescindibile punto di partenza cui l’accesso al farmaco “è uno step solo successivo ed eventuale”, da valutare con la prudenza e il discernimento del buon medico.