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TRA RUSSIA E UNIONE SOVIETICA

CHE COS’ERA IL “GIGANTE ROSSO” NEL RACCONTO DEL DISSIDENTE DELL’ERA COMUNISTA

di Gennaro Malgieri

L’intervista ad Andrej Sinjavskij è tratta da “Colloqui (1974-1991). Attraversando il bosco” di Gennaro Malgieri. Edito da Solfanelli, è un manifesto culturale e politico autenticamente anticonformista, vergato attraverso la voce di testimoni del tempo stimolati dall’acuta intelligenza dell’autore.  

La lunga barba bianca, sempre ben curata, mi era familiare: tutti la conobbero attraverso le foto ed i rari filmati del clamoroso processo di cui fu protagonista negli anni Settanta. Gli occhi piccoli e chiari, straordinariamente luminosi, rivelano animo dolce e lacerazioni non sanate. Un po’ ingobbito dalle sofferenze ho avuto davanti a me, in uno dei pomeriggi più intensi della mia vita, Andrej Sinjavskij, il grande scrittore russo, uno dei capifila del dissenso, condannato nel 1966, insieme con Julij Daniel, a sette anni di gulag, uno dei quali gli fu condannato. L’accusa lo ritenne responsabile di attività antisovietica. Una volta liberato, l’Occidente l’onorò come un coraggioso combattente per la libertà di pensiero e di espressione. L’ho incontrato in occasione dell’uscita del suo libro Buona notte!, edito da Garzanti nel febbraio 1987. All’epoca quell’uomo minuto e gentile viveva in Francia, insegnava alla Sorbona e non rivelava neppure un minimo risentimento per le sofferenze che gli erano state inflitte. Perfino il titolo del libro i rispecchiava il suo temperamento. Titolo originale ed esplicito che è un saluto, un addio, ma anche una confessione, una rivelazione; la finale composizione di umani frammenti che si mischiavano ai sogni: così si dipanava, sotto gli occhi del lettore, il «tempo» di Sinjavskij affollato di personaggi che si muovono intorno e all’interno di un gigantesco universo concentrazionario. Lo scrittore, che si fece conoscere fuori dai confini del suo Paese con il nom de plume di Abram Terz, aveva  già pubblicato in Italia, sempre presso Garzanti, Una voce del coro e Nell’ombra di Gozol; poi sarebbe uscito   Passeggiate con Puskin. Al  nostro incontro era presente la moglie Marija, compagna inseparabile e fondamentale della sua vita, dolce quanto lui, gli occhi profondi, un oceano di sofferenze portato con eleganza. (Andrej Sinjavskij, nato nel 1925, sarebbe morto nel 1997; ndd)




La copertina di “Colloqui (1974-1991). Attraversando il bosco”.
L’opera, edita da Solfanelli, consta di 146 pagine e costa 12 euro

Di recente il «Time magazine» ha rivelato che lei venne denunciato al KGB dalla Cia. È stato detto che fu il suo amico Evgenij Evtuscenko a raccontare l’episodio. Ci può dire come è andata?

Vorrei precisare innanzitutto che Evtuscenko non è mio amico. L’ho visto solo una volta a Parigi, proprio quella volta. Mi telefonò, venne a trovarmi, passammo una serata assieme, prima non lo conoscevo, e mi raccontò queste cose che poi ha raccontato al «Time magazine». Io mi limitai ad ascoltarlo. Questo accadde otto anni fa. Poi con mia grande meraviglia, ho letto io stesso che Evtuscenko ha deciso di rendere noto quell’avvenimento.

Per quale motivo la Cia avrebbe reso un simile servigio al KGB?

Mi è difficile dirlo. Il KGB non mi ha mai detto niente, la Cia lo stesso. Penso si trattasse di un qualche «gioco», di una qualche «combinazione» tra i servizi.

Vuole raccontarci come è nato Abram Terz?

Quando decisi di scrivere e di pubblicare i miei libri all’estero ebbi bisogno di uno pseudonimo…

Per quale motivo?

Perché se avessi scritto con il mio vero nome mi avrebbero arrestato subito. Questo pseudonimo mi ha consentito per dieci anni di poter scrivere e di pubblicare i miei libri.

Nello stesso tempo lei era sempre critico letterario di «Novj Mir»?

Si, con il mio nome collaboravo a «Novj Mir».

Perché ha scelto come pseudonimo Abram Terz, questo vagabondo di Odessa?

In Russia c’è la tradizione di scegliersi degli pseudonimi che abbiano innanzitutto un buon suono ed un significato particolare: per esempio Gorkij e lo stesso Stalin, il primo vuol dire «amaro», il secondo vuol dire «acciaio». Io invece decisi di non seguire questa tradizione e mi scelsi uno pseudonimo meno risonante, più modesto; però allo stesso tempo che avesse un suono, una certa espressività corrispondente al mio stile letterario. Così mi ricordai che in una canzone della malavita c’è un personaggio che ha tal nome: si tratta di un ladro, questo non costituiva per me una remora perché corrispondeva in qualche modo a ciò che facevo, perché capivo che agli occhi dello Stato quello che io facevo era un crimine.

Perché ha scritto un libro come «Buona notte!» che mi è parso una sorta di lunga confessione? Per quale motivo, inoltre, ha aspettato tanto tempo per scriverlo?

In realtà non ho aspettato tanto a pubblicarlo, ma ho impiegato tanto tempo a scriverlo perché mi ci sono accinto soltanto in Occidente dal momento che in Russia non avevo questa possibilità perché mi avrebbero arrestato.

Che cosa rappresenta per lei questo libro, qual è il suo senso ultimo, il suo significato più profondo?

L’argomento di questo libro è come e perché Andrej Sinjavskij è diventato lo scrittore Abram Terz.

Lei non ha scritto «Buona notte!» come per liberarsi di qualcosa, di un incubo, di un peso che l’opprimeva?

Sì, in un certo senso. Però non si è trattato tanto di una liberazione da un incubo, quanto il tirare le somme della mia vita. Inoltre costituisce una sorta di congedo dalla Russia, un congedo dalla mia epoca, dalle esperienze che ho fatto in Patria.

In «Buona notte!»  mi è sembrato che vi sia condensata tutta la sofferenza che ha provato in Urss, nell’Arcipelago Gulag. Non vi ho colto, però, accenti di speranza, forse perché tali accenti li ritiene fuori luogo in un libro del genere?

Forse accenti di speranza non ce ne sono, tuttavia a me pare che il libro, soprattutto alla fine, contenga note di pacificazione, di accettazione anche di ciò che è stato; perfino di riconoscenza a Dio per ciò che mi è toccato vivere, per le esperienze che ho fatto. Naturalmente c’è molta tristezza, ne convengo, ma soprattutto nelle ultime pagine mi pare ci sia una nota positiva sia nei riguardi della vita che delle persone che ho conosciuto.

Lei è un credente?

Si.

Ha sempre creduto in Dio?

Sono cresciuto in una famiglia atea, ho avuto un’educazione atea e sono pervenuto al cristianesimo soltanto in età adulta.

Ritiene che vi siano delle differenze tra il suo cristianesimo e quello, per esempio, di Aleksandr Solzenicyn?

Penso che qualche differenza ci sia. Ritengo che la fede sia un fatto personale: Solzenicyn, invece, mi sembra che consideri la religione piuttosto come una forza politica. A mio giudizio bisogna guardarsi dal mescolare la religione con la politica.

C’è un pubblico particolare al quale «Buona notte!» si rivolge e dal quale lei vorrebbe che fosse letto?

Sì, certo. Il libro si rivolge in primo luogo all’ambiente intellettuale…

Occidentale o russo?

Ho in mente soprattutto quello russo, perché conosco meno bene l’ambiente occidentale.

Cos’è per lei l’esilio, come vive in Francia, sente, talvolta, nostalgia della Russia?

In Francia mi trovo bene, è un paese che ho imparato ad amare, come l’Italia del resto: l’emigrazione costituisce per me il luogo dove posso lavorare; l’Occidente è poi per me un mondo estremamente interessante dove posso viaggiare, conoscere. Una particolare nostalgia nei confronti della Russia non la provo in ragione della mia vicenda personale, del mio destino. Ho capito che un uomo può essere preso, messo dentro, poi tirato fuori da una prigione, mandato all’estero: in definitiva di tutte queste possibili varianti che possono capitare ad un uomo l’emigrazione non è certo la peggiore.

Ha contatti con esuli in Occidente, soprattutto in Francia, penso ad esempio a Maximov?

Sì, ho contatti con molti emigranti, ma non con Maximov.

Che cosa rimane dentro di lei della Russia, non dell’Unione Sovietica?

Interiormente sono molto legato alla cultura russa, alle tradizioni russe: il mio contatto principale con il mio Pese avviene attraverso la letteratura. Laggiù, in Russia, sono rimasti molti amici, alcuni dei quali detenuti tuttora nei lager: anche questo non è Unione Sovietica, ma è la Russia alla quale sono molto legato.

Che cosa ne è di Jurij Daniel, processato insieme a lei?

Siamo in contatto, di tanto in tanto ci sentiamo al telefono. Lui è deciso a restare in Russia; lavora a Mosca come traduttore. Dopo la liberazione dal lager le autorità sovietiche non gli consentivano di lavorare ed era costretto a fare del «lavoro nero» per sopravvivere, senza cioè firmare le proprie traduzioni; ora, finalmente, ha questa possibilità. Non sta molto bene in salute. Nonostante la lontananza siamo rimasti amici.

Al tempo della prigionia lei e Daniel mi sembra che non siete mai stati in cella insieme. Per sei anni dunque non vi siete potuti vedere?

In tutto quel periodo solo una volta lo vidi, casualmente, da lontano. Ci divisero proprio perché al processo avevano visto che eravamo molto legati. È una tattica particolare del KGB: se dei coimputati ad un processo litigano, non si possono soffrire, allora li tengono assieme, se invece si accorgono che sono molto legati, che sono molto amici, allora li dividono.

Qual è attualmente la situazione dei rifugiati in Occidente e dei dissidenti in Unione Sovietica?

In senso lato il dissenso continua in Unione Sovietica, resiste semplicemente perché questo fenomeno è dato dal fatto che c’è tanta gente che pensa con la propria testa e non in base alle direttive governative: questo è un processo irreversibile. Altro discorso è quello delle forme concrete di dissenso. Per esempio il gruppo Helsinki per il rispetto dei diritti umani in linea di massima è stato completamente disperso dalle autorità. Per quanto riguarda il dissenso emigrato, a parer mio non ha saputo proporre alternative convincenti al regime vigente in Unione Sovietica. Anche questo ha contribuito a far sì che le forme di dissenso finora conosciute, cioè quelle organizzate, non hanno saputo resistere alla pressione del regime.

Che cosa ne pensa di Andrej Sacharov?

Come sappiamo, Sacharov ha ora accettato una certa forma di comportamento con Gorbaciov. Finché questo comportamento non è accompagnato da alcun cedimento di posizioni di principio da parte di Sacharov ed egli continua a chiede la libertà per i detenuti politici, non vedo niente di male. Giudico quindi assai positivamente Sacharov la cui posizione si può configurare come un primo elemento di opposizione legalizzata in Unione Sovietica.

Qual è il suo giudizio sul cosiddetto «nuovo corso» di Gorbaciov e su quella che viene chiamata la «glasnost», la trasparenza?

Adesso la parola «glasnost» è diventata internazionalmente nota come le parole di sputnik, vodka, gulag. In linea di massima non posso che compiacermi e valutare con soddisfazione ciò che ha fatto finora Gorbaciov, però, naturalmente, vorrei che questo processo andasse oltre e che ci fossero delle determinate garanzie che questo processo appena iniziato non s’arrestasse. Bisogna dunque vedere come si svilupperanno questi inizi di riforma.

Lei crede che questo processo possa portare ad una liberalizzazione totale in Unione Sovietica?

Penso che l’Unione Sovietica non possa mai diventare uno Stato libero perché smetterebbe di essere Unione Sovietica…Forse fra duecento anni…

Che cosa sopravvive in Unione Sovietica, a settant’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, della cultura russa?

Penso che, nonostante tutto, qualcosa sia rimasta. Il regime non è riuscito, per fortuna, a cambiare completamente il carattere nazionale, né la cultura nazionale del popolo russo.

Che cosa ne pensa della «riabilitazione» di Boris Pasternak avvenuta di recente in Unione Sovietica?

Per adesso non c’è una riabilitazione. Non basta l’autorizzazione a pubblicare un libro (Il dottor Zivago, ndr) per parlare di riabilitazione. Riabilitazione vuol dire ammettere di aver fatto torto ad una persona e farne ammenda, cosa che non è stata ancora fatta in Unione Sovietica nei confronti di Pasternak. Sono comunque molto contento che il romanzo stia per essere pubblicato a puntate.

Lei pensa che un giorno potrà esserci la riabilitazione di Andrej Sinjavskij-Abram Terz?

Sì, post morte. Fra duecento anni.

E ride Sinjavskij, come se contemplasse con quell’ironia che gli è propria il suo destino.