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LA RICOSTRUZIONE MAMMARIA AUTOLOGA: UNA NUOVA FRONTIERA PER LE PAZIENTI MASTECTOMIZZATE

Di Franco Bassetto, Carlotta Scarpa e Vincenzo Vindigni*

Con una frequenza pari al 41% nelle donne al di sotto dei 50 anni di età e del 22% nelle pazienti di età superiore ai 70 anni, attualmente il tumore della mammella rappresenta il 30.3% di tutti i tumori femminili, ed è stato caratterizzato, nell’ultimo decennio, da un costante incremento della sua incidenza, pari al 1.6% annui. Tale andamento ha quindi comportato una sempre crescente necessità di intervenire con terapie mediche, quali la radioterapia e/o la chemioterapia, e/o terapie chirurgiche, come la quadrantectomia o la mastectomia, atte a “garantire” la sopravvivenza della paziente.

Nonostante tali trattamenti portino notevoli benefici, essi possono, tuttavia, minare l’immagine corporea della paziente, soprattutto qualora comportino l’asportazione dell’intera ghiandola mammaria, associata, o meno, alla contemporanea asportazione del complesso areola capezzolo.

E’ noto, infatti, come la regione mammaria sia da sempre considerata, nella donna, sinonimo di femminilità, bellezza e “carica erotica”, rappresentando quindi centro nevralgico per l’immagine corporea femminile.

Al fine quindi di far riacquisire alla paziente, al più presto, tale immagine, sin dall’antichità molte sono state le metodiche di ricostruzione mammaria utilizzate, dalle epitesi in terracotta fino a metodiche più recenti di ricostruzione mammaria cosiddetta autologa, ovvero ottenibile mediante l’ausilio dei tessuti della paziente stessa.

Diversamente, infatti, dalla più conosciuta procedura di ricostruzione con espansore e protesi, metodica tutt’ora ancora molto utilizzata perché a “limitata invasività” e perché non richiede sofisticati strumenti chirurgici, ma che espone la paziente sia ad una continua stimolazione immunitaria (causata dalla presenza di protesi mammaria, ovvero di un corpo estraneo con possibile insorgenza, in pazienti predisposte e/o sottoposte a radioterapia, di contrattura capsulare), sia all’aumentato rischio, soprattutto nelle pazienti sottoposte a radioterapia, di esposizione dell’espansore dapprima e della protesi a seguire; la ricostruzione con tessuti autologhi prevede l’utilizzo di tessuti “prelevati” dalla paziente stessa (sito donatore) e che vengono posizionati a livello mammario (sito ricevente) mediante procedure sempre più spesso microchirurgiche, ovvero che si avvalgono di sistemi di ingrandimento (loops e/o microscopi), che consentono al chirurgo di “connettere”, mediante punti di sutura (anastomosi), le strutture vascolari mammarie a quelle presenti nei tessuti prelevati dal sito donatore.

Nonostante tale intervento sia più invasivo, e abbia una durata maggiore del più “semplice” posizionamento di protesi mammaria, il tessuto autologo della paziente consente una migliore naturalezza di risultato (la neomammella appare di consistenza simile alla controlaterale, e segue i naturali processi di invecchiamento), ma soprattutto consente di portare, in un’area trattata non soltanto chirurgicamente ma anche con terapia radiante e pertanto soggetta a processi aterosclerotici e fibrotici indotti da quest’ultima, un tessuto “biologicamente sano”, e quindi di eseguire una sorta di “bonifica” dell’area precedentemente affetta dagli esiti del trattamento della neoplasia. Per tali motivi la ricostruzione autologa comincia ad essere considerata sempre di più prima scelta, se possibile.

I maggiori interventi utilizzati di ricostruzione mammaria autologa

Molti sono stati in questi decenni i trattamenti autologhi sviluppati al fine di ottenere una valida e soddisfacente ricostruzione mammaria con minor impatto possibile sul sito donatore. Se infatti, nel secolo scorso, tali trattamenti erano maggiormente rappresentati da interventi chirurgici che prevedevano non soltanto una cicatrice cutanea, ben visibile al sito donatore, ma anche la possibile compromissione dell’apparato muscolare della paziente (tali interventi comportavano la disinserzione di muscoli addominali o dorsali) con conseguente parziale perdita di funzione, ad esempio, dell’arto superiore; attualmente, come sopra accennato, tali interventi prevedono la possibilità di prelevare dei tessuti distanti dalla regione mammaria e di trasferirli su di essa mediante tecnica microchirurgica.

Nello specifico, oggi è possibile, ad esempio, prelevare esclusivamente (risparmiando quindi il tessuto muscolare) la cute, il sottocute (tessuto adiposo) e alcuni vasi facenti parte della vascolarizzazione definita perforante (ovvero una sorta di vascolarizzazione di superficie, la cui asportazione non comporta alcun danno alla regione donatrice) dalla regione addominale, con procedura simile a quella dell’Addominoplastica (e in questo caso parleremo di DIEP Flap, ovvero di Lembo basato sulle arterie perforanti derivanti dall’arteria epigastrica inferiore) o dalla regione glutea (e in questo caso parleremo di SGAP Flap, ovvero di Lembo basato sulle arterie perforanti derivate dall’arteria glutea superiore). Tali interventi eseguibili, quando possibile, contestualmente all’intervento demolitivo di mastectomia, non prevedendo il coinvolgimento delle strutture muscolari, e conseguentemente la perdita, anche se parziale di una funzione, hanno quindi un minore impatto sull’area donatrice che, nel caso, ad esempio, di pazienti con discreto pannicolo adiposo addominale, beneficia della rimozione del pannicolo in eccesso, a scapito però di esito cicatriziale.

Tuttavia tali interventi non sono scevri di possibili complicanze. Nello specifico la più temibile è correlata alla necessità di eseguire delle anastomosi microchirurgiche tra i vasi mammari e i vasi perforanti presenti nel lembo, ed è rappresentata dalla possibilità di formazione di trombi all’interno dei vasi stessi che possono condurre alla perdita parziale o totale del lembo stesso. Fortunatamente, l’odierno miglioramento dei metodi di monitoraggio postoperatorio e l’utilizzo di farmaci che rendono maggiormente fluido il tessuto sanguigno, hanno fortemente ridotto, ma non eliminato, tale complicanza, che comunque deve essere spiegata alla paziente al momento della visita al fine di ottenere un valido consenso al trattamento.

Trattamenti alternativi all’intervento “espansore-protesi”

Attualmente è possibile considerare una ricostruzione mammaria autologa basata completamente sull’utilizzo di tessuto adiposo (Lipofilling mammario). Tale trattamento chirurgico prevede il progressivo “deflating” dell’espansore mammario impiantato subito dopo la mastectomia, e il contestuale innesto/impianto di tessuto adiposo della paziente, prelevato nella stessa seduta operatoria.

Anche in questo caso la neomammella si presenterà morbida al tatto e di aspetto molto naturale; tuttavia il trattamento con Lipofilling prevede più sessioni chirurgiche, costringendo la paziente a sottoporsi a multipli interventi; inoltre 1) la presenza nel tessuto adiposo innestato di cellule cosiddette staminali, ovvero capaci di maturare, 2) il necessario apporto sanguigno richiesto per la sopravvivenza dell’innesto adiposo stesso, 3) la possibile calcificazione di parte del tessuto adiposo,  hanno diviso in questi anni la comunità scientifica sull’opportunità o meno di proporre tale trattamento. Parte della comunità scientifica, infatti, teme che le precedenti caratteristiche possano favorire la comparsa di recidive neoplastiche o possano, nel caso delle calcificazioni, ostacolare la corretta interpretazione di esami strumentali, come la mammografia.

Attualmente la ricerca e i dati di letteratura stanno tuttavia dipanando tali preoccupazioni, riservando un atteggiamento di attesa di “due anni di libertà di malattia” alle sole pazienti affette da una specifica tipologia di carcinoma mammario e/o da esito di asportazione parziale della mammella; la persistenza infatti di ghiandola mammaria potrebbe “nascondere” microscopici focolai neoplastici non rilevabili dalle odierne indagini strumentali e il cui sviluppo quindi potrebbe essere favorito dall’apporto sanguigno necessario alla sopravvivenza dell’innesto e/o alla percentuale di cellule staminali presenti nell’innesto di tessuto adiposo.

Il professor Franco Bassetto

* Prof Franco Bassetto, Professore Ordinario, Direttore della Cattedra di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica, Azienda Ospedale-Università di Padova.

Dott.ssa Carlotta Scarpa, Ricercatrice c/o la UOC Chirurgia Plastica Ricostruttiva, Azienda Ospedale-Università di Padova.

Prof Vincenzo Vindigni, Professore Associato c/o la UOC Chirurgia Plastica Ricostruttiva, Azienda Ospedale-Università di Padova