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Chateaubriand, l’attualità di un conservatore

Tomba si René-Francois Chateaubriand a Saint-Malo

PER INTERPRETARE LA CONTEMPORANEITA’ LA CHIAVE PIU’ ADATTA E’ QUELLA DI RICORRERE AI GRANDI INTERPRETI DELLA PROPRIA EPOCA. COME IL POLIGRAFO BRETONE CHE RAFFIGURO’ VIVIDAMENTE LA FRANCIA DALLA RIVOLUZIONE AI MOTI DEL ‘48

di Gennaro Malgieri

Davanti all’Oceano, sull’isolotto del Grand Bé di fronte a Saint-Malo, dove l’alta marea improvvisamente la lambisce, la sontuosa tomba di François-René de Chateaubriand, con quella grande croce in pietra che la sormonta, assomiglia all’avamposto di un miliziano a guardia della fede e della civiltà. È dentro questa pietra di Bretagna che volle essere sepolto per restarci in eterno, al riparo, forse sperava, dalle frettolose rimozioni materiali e ancor più dalle repentine dimenticanze.Così, deposto di fronte al mare, sullo scoglio al quale si può accedere soltanto a piedi, non di rado accompagnati da stormi di gabbiani, quando il mare si ritira, Chateaubriand sembra vigilare sulle tormente che l’Atlantico annuncia, metafore di quelle che lui ha vissuto e descritto e che, incessantemente, si ripetono nei cuori tumultuosi a testimonianza dell’eterno ritorno dei sentimenti che segnano la storia degli uomini grandi come di quelli ordinari.Guardando il suo sepolcro dai bastioni di Saint-Malo, più volte ho pensato che non poteva esservi altro posto quale ultima dimora per il grande scrittore francese. E la conferma della mia impressione l’ho avuta voltando  l’ultima pagina del ponderoso, suggestivo e scintillante saggio di Marc Fumaroli,  Chateaubriand, pubblicato una decina d’anni fa da Adelphi, un testo  vasto, completo, approfondito, seducente, ricco di una spiritualità antica, ma non privo di una laicità necessaria ad affrontare il trentennio a cui il poligrafo bretone ha dedicato il suo affresco intimo e pubblico allo stesso tempo, quelle Memorie d’Oltretomba, che rappresentano la raffigurazione più vivida delle conseguenze spirituali e politiche della Rivoluzione. La descrizione di un punto di crisi senza ritorno sul quale Fumaroli incentra la propria indagine. Rileggendo il suo saggio dieci anni dopo ho avuto l’impressione di immergermi nel nostro tempo. Da qui la necessità di dedicare qualche nota a Chateaubriand e al suo lontano esegeta.Chateaubriand vi emerge con tutte le sue contraddizioni in una luce che finalmente illumina gli angoli più angusti di una vicenda intellettuale collettiva che trascende il soggetto che meglio l’incarna.


Francois-Rene de Chateaubriand ritratto da Anne Louis Girodette-Trioson

Chateaubriand, vissuto a lungo e intensamente (Saint-Malo 4 settembre 1768 – Parigi 4 luglio 1848), può essere considerato il testimone più attendibile dei mutamenti che hanno connotato la nascita dell’epoca che chiamiamo moderna. Egli ha visto con i propri occhi, e spesso da protagonista ogni cosa: una monarchia diventare repubblica; la repubblica trasformarsi in impero; l’assolutismo cedere il passo alla democrazia; la democrazia farsi terrore; il terrore cedere il posto all’ordine nuovo di un militare venuto dal nulla e poi la restaurazione e le illusioni finire con una “monarchia repubblicana”. L’intreccio di eventi, non esente da purissima poesia nel vissuto e nell’immaginario, ha formato il capolavoro di Chateaubriand che non è racchiuso soltanto nella sua opera maggiore, ma nelle migliaia di pagine e di articoli giornalistici pubblicati specialmente nel suo quotidiano “Le Conservateur”, fondato nel 1818. Una sterminata “lettura” storico-politica, e morale, che non può ancora oggi lasciare indifferenti. Insomma, leggere Chateaubriand è una chiave per comprendere il nostro tempo e la “democrazia illiberale” – descritta in altri termini – da un grande conservatore. La sua profondità intellettuale spiega l’elogio di Charles Augustin de Saint-Beuve: «Noi siamo tuoi figli! Le tue idee, le tue passioni, i tuoi sogni non sono più solo i nostri, ma tu ci hai indicato la strada e seguiamo le tue tracce».Anche Fumaroli ha seguito le sue tracce. E ci invita con la propria “riscoperta”, certamente la più eloquente letterariamente considerandola, a «una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’Oltretomba e del campo magnetico entro il quale si è formata. Esso presenta il panorama dei sentimenti, dei pensieri, delle passioni di un grande essere che fu anche un grande poeta, nato vent’anni prima del 1789 e morto nei giorni di tumulti e repressione cruenta del giugno 1848».Fu perciò “navigatore tra due rive”, come testimone e protagonista di vicende contraddittorie che segnarono la storia della Francia e diedero il tono a quella dell’intera Europa. Un tale “viaggiatore velato” viene accompagnato nella sua odissea ai quattro punti cardinali del “secolo delle rivoluzioni” da un “fedele” indagatore come Fumaroli che delinea così, per suo tramite, una stupefacente mappa dei conflitti tra modernità e anti-modernità, tra illuminismo e anti-illunimismo, tra razionalismo e fede, tra un mondo che si lacera e si dissolve e uno nuovo che nasce all’insegna dell’eternità per poi scoprirsi precario e fragile.

Ma che cosa sono le Memorie d’Oltretomba nella storia della letteratura e del pensiero europei le cui suggestioni arrivano fino a noi con il fardello di un annuncio che probabilmente non abbiamo ancora decifrato del tutto? Lasciamo dire a Fumaroli: «Sono il riepilogo di una vita che ha spe-rimentato l’impotenza della pa-rola e dello scritto a governare gli spiriti, e di un “secolo di rivoluzioni” che ha inaugurato un’era di instabilità permanente e di “marcia nelle tenebre”… Esse redigono il documento più tetro dell’inanità umana a controllare il “progresso” sociale, morale, politico e tecnico di cui l’uomo moderno si è eletto a demiurgo. Ma la loro poesia “assolutamente moderna” scatena la sua ironia, e un compiaciuto disprezzo, sull’esistente che si pone come la sola misura del “possibile” e contro gli uomini che si attribuiscono un dominio razionale su certe forze materiali che sfuggono loro di mano e li beffano».Consapevole di tutto questo, del suo destino, della finitezza delle sue possibilità, della sua raggelante e accettata impotenza, come deve esserlo un uomo di pensiero vocato a chiarire a se stesso e al mondo la propria inclinazione verso la conoscenza e a subirne gli scacchi nel momento in cui deve arrestarsi di fronte all’inconoscibile o soltanto alle forze che non può ridurre al proprio volere, Chateaubriand si muove nell’humus dei grandi desideri sconfitti, nella vita e nella storia in negativo dove si cela il divino e sulle sue indecifrabili tracce il poeta, deluso da tutto, raccoglie “sementi di eternità”. Saranno queste “sementi” a dare altri frutti, magari, come ci accade di osservare, nell’incoscienza di chi li raccoglie. Sarà per questo che Chateaubriand può considerarsi il genio-madre dei “poeti maledetti”?La risposta può darla chiunque prenda confidenza con l’opera dello scrittore romantico-conservatore. Nessuno, comunque, potrà esimersi dall’ammettere che il suicidio della libertà, da Chateaubriand descritto a chiare lettere, fu dovuto a una interpretazione del razionalismo come giustificazione della distruzione del passato e dell’assolutismo come la moderna forma di potere politico capace di assolvere l’ignorante umanità dai suoi peccati proprio perché proiezione della Ragione.Ma la Ragione ebbe torto. E a Chateaubriand non restò, dopo l’orrenda fine del duca di Enghien, di ritrarsi dall’arena dove furoreggiavano gli apologeti dello Spirito Universale visto passare a Jena da Hegel: il sole di Austerliz sarebbe tramontato in una luce macabra salvo poi essere resuscitato dalla memoria di una nazione non rassegnata alla fine del sogno imperiale, ma a quel punto Chateaubriand avrebbe già preso congedo dal mondo ritirandosi per l’eternità sullo scoglio del Grand Bé.

Da René ad Atala, dal Genio del cristianesimo a Buonaparte e i Borboni, fino alle sontuose Memorie, Chateaubriand ha testimoniato con i sentimenti privati la propria adesione o la propria avversione ad alcune pubbliche virtù. Di certo, pur nell’apparente contraddizione di alcune posizioni dovute alle contingenze politiche, egli non ha mai deflesso da una visione aristocratica dell’esistenza che gli faceva sospettare della democrazia e soprattutto dei demagoghi che a essa si rife-rivano per asservire il popolo. Fu un uomo estremamente coerente, dunque, tanto quando salì i vertici dell’amministrazione dello Stato, fino a essere ministro degli esteri di Luigi XVIII, quanto fu costretto a scenderli. Di certo i pubblici onori non gli hanno mai fatto trascurare i sentimenti, le cui ultime tracce sono in quelle poche pagine di Amore e vecchiaia, stralciate dall’opera monumentale.Ma di tutto questo che cosa, infine, rimane? Una prospettiva religiosa che trascende ideologie e teoriche del potere. Perfino Joseph De Maistre sembra in ombra di fronte alla possente costruzione di un sentimento cristiano che promana dalle pagine di Chateaubriand. E non a caso da lui il conservatorismo, nella seconda metà dell’Ottocento, riprende le mosse non tanto per ricostruirsi in Europa come un partito politico, ma come una tendenza spirituale fondata sulla certezza del diritto naturale e sulla intangibilità della Rivelazione.Nelle ultime pagine delle Memorie l’autore ha lasciato la sua“profezia”. O la si nega in radice o la si condivide totalmente. L’universo dei credenti non può prescinderne. Quando cristianesimo, afferma Chateaubriand, «avrà raggiunto l’apice, le tenebre si dissiperanno completamente; la libertà, crocifissa sul Calvario con il Messia, ne discenderà con lui; consegnerà alle nazioni il nuovo testamento scritto in loro favore, le cui clausole sono state finora intralciate. I governi passeranno, il male morale sparirà, il riscatto annuncerà la fine dei secoli di morte e di oppressione nati dalla caduta».È quel che resta della passione civile, religiosa, politica, sentimentale di un uomo che fu tutto nella vita e ritenne di avere ogni cosa nelle mani, ma sempre provvisoriamente. Attraversò la Rivoluzione per comprenderla e avversarla; si pose sulla riva ad attendere che la piena passasse. I cadaveri scorsero sotto i suoi occhi con una rapidità che lo sorprese, ottuagenario senza ormai più un avvenire, ma soltanto con un passato da contemplare. Tra lui e i suoi contemporanei vi furono incomprensioni e convergenze, ma non perché fosse uomo di rotture o di mediazioni, semplicemente per il fatto di non aver mai messo in discussione il primato dello spirito aristocratico sul populismo plebeo. Moderno, antimoderno? Si discuterà a lungo della natura del pensiero di Chateaubriand. Di certo oggi è molto più vicino a noi di quanto si possa credere. Assetati come siamo di conoscere l’essenza dei disegni provvidenziali in un’epoca che ha messo da parte il sacro, l’opera del grande bretone è un’ancora di salvezza. E lo sarà almeno fino a quando gli albatros e i gabbiani s’aggireranno sullo scoglio del Grand Bé contro il quale s’infrangono le onde dell’Atlantico che in primavera si colorano di grigio e d’azzurro, un paesaggio che gli ricordava “le solitudini americane” dalle quali rimase colpito a diciassette anni, all’epoca del proprio viaggio nel Mondo Nuovo che, come dissero i suoi contemporanei, formò la nuova tempra del suo ingegno e gli ispirò Atala, scritto nel deserto nordamericano “sotto le capanne dei selvaggi”. L’ordine primordiale, la visione della bellezza incontaminata, l’incontro con il sacro neppure scalfito. Chateaubriand da oltre centosettantatrè anni riposa di fronte all’America,quasi ponte umano tra due continenti.


Lo storico Marc Fumaroli, biografo ed esegeta di Chateaubriand