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VIA DELLA SETA AL DECENNALE

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Alla Cina vengono attribuite mire esclusive di potere mondiale, per il progetto della “Nuova Via della Seta”. Ma attenti alla trappola di Tucidide

di Stefania Tucci

Sono passati dieci anni da quando nel settembre del 2013 il presidente cinese Xi Jinping lanciò il progetto Belt and Road Iniziative (BRI), detta anche Nuova Via Della Seta. L’obiettivo era ed è quello di incrementare le connessioni, marittime e terrestri. Per sviluppare il commercio e lo scambio culturale lungo le rotte ispirate all’antica Via della Seta. Il programma nasceva da una pubblicazione del 2012 dello “Institute of International and Strategic Studies” della Università di Pechino. Si sottolineava come la Cina avrebbe dovuto rimodellare la sua politica estera passando da un focus sugli alleati indo pacifici degli Stati Uniti (Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Filippine) a un altro che tenesse in maggior conto l’Asia Centrale e il Medio Oriente. Partendo da questo studio accademico il governo di Pechino ha disegnato più Vie della Seta con numerosi snodi terrestri e marittimi.

Le molteplici “Vie della Seta”

In realtà, come ha precisato lo storico Peter Frankopan, le Vie della Seta erano e sono sempre state molteplici. Aggirando ostacoli naturali – come il terribile deserto del Taklamakan con un percorso a nord e uno sud – oppure politici come quando alcuni territori venivano invasi da
tribù e popoli bellicosi. Ora come allora, anche la moderna Silk and Road si adatta, e continuerà a farlo, alla realtà geopolitica. Con il vantaggio che la tecnologia di oggi consente più agevolmente di superare almeno gli ostacoli naturali. Il programma è focalizzato sulla costruzione di una rete di infrastrutture terrestri e marittime, incluse quelle per le telecomunicazioni. Per connettere circa 150 Paesi tra Asia, Africa, America Latina, Europa orientale e mediterranea, Isole del Pacifico.

Una gran parte degli investimenti cinesi sono rappresentati da prestiti a lungo termine ai governi che hanno aderito nell’iniziativa. A volte rimborsati anche mediante concessioni minerarie, energetiche o di tariffe portuali ridotte a favore delle compagnie pubbliche cinese. Questi prestiti hanno avuto ricadute importanti in termini di lavori per imprese di costruzione e di ingegneria cinesi, supportate dalla China Development Bank. A oggi i finanziamenti erogati dalla Cina ammontano a circa un trilione di dollari e hanno visto un picco nel 2016. Con prestiti per 90 miliardi di dollari contro i soli cinque del 2021.

Sfida agli Stati Uniti?

Molti osservatori occidentali hanno visto questo progetto avviato dalla Cina come una sfida all’influenza mondiale degli Stati Uniti e delle altre democrazie industrializzate. Anche alla World Bank, organizzazione che nell’ordine mondiale post seconda guerra mondiale era designata a finanziare questo tipo di investimenti nei Paesi che ne erano carenti. Non c’è dubbio che con tale iniziativa la Cina aveva e ha intenzione di rendere interdipendenti dalla sua economia i Paesi che vi aderiscono. Oltre che esercitare una influenza politica su di loro.

Alcuni analisti hanno paragonato la BRI agli aiuti del Piano Marshall, varato dagli Usa nell’immediato secondo dopoguerra. Ma mentre quest’ultimo aveva come principale obiettivo l’evitare che i Paesi usciti distrutti dal secondo conflitto mondiale abbracciassero il comunismo cadendo nelle braccia dell’Urss, la Cina non ha nessuna mira sull’ordine politico interno dei Paesi aderenti. Né ha intenzione di limitare la loro politica estera. L’ottica è quella di condividere benefici economici, grazie a maggiori connessioni, tra gli aderenti.

Belt and Road ha anche precisi obiettivi interni cinesi, legati alla necessità di trovare uno sbocco internazionale alle imprese infrastrutturali cinesi. Oltre che di sostenere lo sviluppo delle aree centrali del Paese tradizionalmente molto meno ricche e sviluppate delle regioni costiere.

Ampliare la propria sfera di influenza economica

A mio parere, vedere questo enorme progetto solo in chiave di contrasto tra la Cina e gli Stati Uniti è un’ottica parziale. Perché l’obiettivo della prima è ampliare la propria sfera di influenza economica e politica ovunque sia possibile. Ma senza un “nemico” dichiarato, come invece aveva il Piano Marshall. Alla BRI infatti hanno aderito le ex Repubbliche Sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan (riducendo in tal modo la loro dipendenza da Mosca); il Pakistan (che vede nel corridoio Sino- Pakistano una sua maggiore forza nella regione contesa all’India del Kashmir); e molti Stati africani. I cui governi che hanno interessi a passare dal Washington Consensus al Beijing Consensus, ritenendolo meno invasivo su temi di politica interna.

Seguendo l’ottica di individuare un nemico, nel primo caso la Cina avrebbe sfidato la Russia, nel secondo l’India e nel terzo gli USA. In realtà dove intravede l’opportunità per aumentare la propria influenza prima economica e poi politica la Cina la coglie. Occupando spazi lasciati da altri, come sta accadendo anche in Afganistan, Paese ricco di minerali, terre rare incluse.

I contraccolpi dei paesi aderenti

Con questo ampio cappello introduttivo non si può non sottolineare che alcuni Paesi aderenti hanno avuto una serie di contraccolpi interni politici e finanziari non di poca importanza. Proprio a causa della gestione dei progetti e del debito a essi connesso.

In Malesia sono state sollevate pesanti accuse di corruzione che hanno portato alla cancellazione della East Coast Rail Link. Ma il Paese ancora aderisce all’iniziativa, derubricando l’episodio come corruzione interna, che peraltro ha afflitto anche ad altri progetti governativi.

Islamabad, Pakistan

In Pakistan, il maggior percettore dei fondi della BRI, circa il 40% dei progetti finanziati riscontra problemi di tipo economico (costi esplosi), corruzione, impatto ambientale. Di questi progetti la metà è stata cancellata. Altri, però, stanno procedendo con successo. Soprattutto quelli riguardanti gli impianti energetici, le nuove autostrade, il cablaggio ad alta velocità che consente la connessione nelle città tra le alte montagne.

In Africa (dove sono in corso progetti in Nigeria, Uganda, Egitto, Etiopia, tra gli altri Paesi) le differenti opposizioni riguardano sempre l’iniquo scambio infrastrutture contro risorse minerarie o energetiche. In Etiopia la merce di scambio è rappresentata da terreni molto fertili da destinare alla produzione di derrate alimentari. Il Kenya dove si sta costruendo la prima ferrovia ad alta velocità del continente, tra Mombasa e Nairobi, con personale locale formato dai cinesi, sono forti le perplessità per le ricadute dell’indebitamento con la Cina. In Sri Lanka lo sviluppo del porto di Hambantota, concesso ai cinesi per 99 anni, ha portato a vedere nel progetto una iniziativa neo coloniale. Sollevando proteste popolari che hanno costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica.

In Europa

La Grecia, dopo anni di instabilità economica dovuta alla crisi del 2008, ha ceduto alla Cosco cinese la maggioranza del Porto del Pireo. Oltre ad aver aderito formalmente alla BRI. In Italia il governo Conte ha firmato nel 2019 il Memorandum of Understanding con la Cina per aderire alla BRI (unico Paese membro del G7 a farlo). Ma l’attuale esecutivo, guidato da Giorgia Meloni, ha deciso in sostanza di abbandonare l’iniziativa.

Aderiscono alla BRI anche Ungheria e Polonia, limitatamente ai “corridoi ferroviari”. Va comunque detto che la Cina, laddove è stata accusata di aver generato una trappola da eccesso indebitamento, ha unilateralmente provveduto a ristrutturarlo e sta cercando di migliorare il monitoraggio anti corruzione (ma senza mai entrare nelle vicende legate a fenomeni di corruzione interna).

Le nuove Vie della Seta

Oggi, a dieci anni appunto dalla nascita della BRI, al di là dei proclami ufficiali che sottolineano il triliardo di investimenti e i 3mila progetti avviati, la Cina, anche a causa delle sue debolezze economiche interne sta rimodellando le Vie della Seta, adattandosi alle mutate condizioni non geografiche ma certamente politiche. I nuovi imperativi sono ora lo sviluppo green, la salute pubblica e la digitalizzazione. Il presidente Xi nel celebrare il decennale, davanti a circa 130 leader di governi aderenti, ha richiamato tre iniziative globali che vedranno la Cina promotrice: Global Development, Global Security, Global Civilization.

Tradotte in soldoni, queste iniziative significano, per quanto riguarda la prima: aiuti alla riduzione della povertà estrema mondiale e focalizzazione sullo sviluppo sostenibile. Per raggiungere il quale la Cina mettere a disposizione la sua leadership nelle batterie per veicoli elettrici e pannelli solari per la transizione energetica.

La seconda punta a sottolineare il concetto di reciproca non interferenza nelle reazioni internazionali. Nella terza, a proposito di civilizzazione globale, la Cina sottolinea il suo rispetto per la diversità nella civilizzazione rigettando i concetti di valori universali, visti come strumento della concezione occidentale delle relazioni internazionali.

Il rischio della trappola

Questi tre temi vengono visti in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, come una sfida lanciata dalla Cina, con il rischio però di cadere nella trappola di Tucidide. Attribuendo ai cinesi logiche di dominio mondiale che, a parere di chi scrive, mal si accordano agli obiettivi prevalentemente di crescita economica che persegue la dirigenza del Paese. Al presidente Xi è ben chiaro che il “mandato celeste”, che lega “l’Imperatore” al Popolo, è il perseguimento del benessere economico e sociale. Il reddito medio pro capite cinese è di circa 13mila dollari (a parità di potere di acquisto), contro gli oltre 70mila statunitensi.

Per il momento, e sottolineo però per il momento, l’obiettivo è ancora “arricchirsi è glorioso”, secondo le parole di Deng Xiao Ping, ma ricordando anche un’altra sua frase: nascondi al nemico la tua forza, fintanto che non sei pronto a sferrare l’attacco.