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LE GUERRE E I MERCATI

Matias Luge

Guerre e mercati: sono due i fronti infiammati che preoccupano più i risparmiatori che gli investitori professionali. Tuttavia non bisogna trascurare l’impatto psicologico su chi vuole pianificare una strategia finanziaria del proprio portafoglio

di Luca Lippi

Il primo fronte, quello più grande per dimensioni ma non per importanza, è russo/ucraino. Il secondo fronte, assai più ridotto per dimensioni rispetto al primo, è il Mar Rosso. Quest’ultimo ha una potenza di impatto sui mercati assai maggiore perché coinvolge la logistica.

Senza andare troppo nei particolari e senza farsi risucchiare da analisi geopolitiche che sarebbero incomprensibili per la maggior parte, è interessante individuare pochi ma determinanti punti critici per delineare un quadro chiaro della situazione.

La situazione politica: guerra Russia – Ucraina

Se è vero, come è vero, che i mercati brillano di luce propria – in sostanza non seguono la politica semmai è il contrario – è altrettanto vero che la politica dovrebbe garantire stabilità. I mercati sono sensibili solamente all’incertezza, non valutano la qualità delle decisioni prese ma si adattano alle ripercussioni dell’azione politica. Sulla base di questa premessa, per chi osserva, diventa importante anche il ruolo della politica.

A Bruxelles si è tenuto un confronto che qualcuno, audacemente, avrebbe definito “consiglio di guerra”. Premesso che l’inattività – per oltre 70 anni – di conflitti bellici in Europa ha disabituato, se non addirittura annientato, ogni capacità oggettiva di valutazione di situazioni belliche, di fatto la discussione si è limitata a replicare le azioni di sostegno all’Ucraina.

I venti di guerra non sono che la rappresentazione plastica della più probabile “palpazione” degli umori europei a un intervento – improbabile per manifesta incapacità – armato nelle zone calde. Per “palpazione” si intende la ricerca di reazioni da parte dell’opinione pubblica allo scopo di individuare corridoi di penetrazione in vista delle prossime elezioni europee. Il solito, squallido, artifizio per pianificare le campagne elettorali non sui temi ma sulla ricerca dei consensi.

I miliardi di euro spesi fino ad oggi per sostenere l’Ucraina sono 138 e l’intenzione del consiglio Ue è quella di continuare su questa strada. A voler cercare una motivazione più nobile di quella elettorale – ma lo sforzo è importante – la Ue si preparerebbe ad affrontare la crisi da sola perché gli USA, di fatto, si sarebbero già sfilati.

La preparazione della guerra da parte della Ue non è altro che il confezionamento di minacce più o meno ridicole – da parte della Francia sono un po’ più rumorose – senza alcun riscontro oggettivo, situazione ideale per Putin che senza subire pressioni reali avrebbe tutto il tempo, se lo volesse, di marciare su Kiev. I fatti dicono che l’Europa è disarmata, non ha un esercito, dipende totalmente dall’ombrello Usa che negli anni ha atrofizzato i muscoli del Vecchio Continente. Pianificare un’economia di guerra richiede molti anni. Questo è già sufficiente per definire il Consiglio Ue della scorsa settimana un bluff.

Tensioni in Mar Rosso

Quello che sta accadendo nel mar Rosso non è altro che la conseguenza del conflitto sulla striscia di Gaza. Saltando tutta l’annosa questione che riempie la storia dei rapporti tra questi due popoli, gli Hiuty yemeniti che appoggiano la causa palestinese, da mesi attaccano le navi commerciali in transito nella lingua di acqua tra l’Africa e la penisola arabica. L’Europa ha stabilito un intervento militare a protezione delle navi in transito. Non è un intervento diretto sulle basi degli Hiuty ma è uno scudo a protezione del transito commerciale. È bene ricordare che solo l’Italia, dal mancato transito delle navi commerciali nel mar Rosso, perde 95 milioni di euro al giorno. Dunque parliamo di una guerra commerciale ibrida.

La situazione economica

Sin dai primi fuochi, sono state pianificate delle sanzioni contro la Russia allo scopo di fare collassare l’economia e il Rublo. La banca centrale russa, di contro, ha aumentato in maniera drastica i tassi di interesse. Ha obbligato tutti gli importatori di prodotti energetici a pagare in rubli le forniture facendo confluire questi pagamenti in conti a doppia matrice (tanto in dollari che in rubli). In questo modo la Russia si è appropriata di una importante quantità di valuta estera che ha consentito alla banca centrale russa di arricchirsi e di togliere valuta agli esportatori.

Le forniture energetiche russe a prezzi di favore per l’Europa, sono state dirottate in India e Cina, consentendo a queste ultime di speculare sul minor costo energetico sostenuto, avvantaggiandosene per aggredire i mercati con politiche di prezzi assai concorrenziali. Tutte le aziende occidentali in territorio russo che hanno obbedito a ritirare i propri business in Russia, hanno lasciato il posto a imprenditori locali che sono subentrati alle catene e alle attività industriali lasciate in fretta e furia, semplicemente cambiando nome e continuando a produrre esattamente come facevano prima.

In sostanza le sanzioni hanno fatto riemergere la classe imprenditoriale russa (erano quasi tutti in grosse difficoltà finanziarie) rafforzando l’economia del Paese che si è sostituita all’importazione tramite brand. In estrema sintesi, la Russia dal punto di vista economico ha fatto tesoro delle sanzioni rinvigorendo l’economia interna, il Pil sostanzialmente è cresciuto grazie soprattutto alla vivacità dell’industria bellica. Mercati di riferimento per le esportazioni e le importazioni sono stati sostituiti, rafforzando alleanze già in parte preesistenti con tutta l’area BRICS. L’unico mercato che avrebbe perso sarebbe l’Europa.

Ripercussioni economiche dal fronte Mar Rosso

Da questo lato le ripercussioni economiche sui mercati sono molto più complesse e impattanti. In questo momento siamo nel bel mezzo di una tempesta perfetta.

Gli attacchi degli Hiuty alle navi commerciali che transitano nel mar Rosso, tecnicamente impedendo l’accesso al canale di Suez, costringono i natanti a circumnavigare l’Africa e tutto questo provoca un allungamento dei tempi di consegna delle merci – dai quindici ai venti giorni in più – di fatto andando a deteriorare la Supply Chain. Se un’azienda non riceve materiale per quindici o venti giorni rischia di chiudere. Altra conseguenza, banalmente, è l’aumento dei prezzi dei container. Nell’ottobre del 2023 era intorno ai mille dollari, oggi il costo è quintuplicato, di conseguenza è il costo del trasporto a quintuplicare.

La situazione in Italia

Per l’Italia nello specifico, ci sono problemi – oltre quello appena elencato – relativi al fatto che il Mediterraneo è tagliato fuori dalla rotta forzata per evitare il passaggio nel mar Rosso. I porti italiani – come anche quelli greci – soffrono particolarmente per l’improvvisa assenza di traffico. Dunque il problema del trasporto dei container include hub di scambio molto decentrati, le merci devono proseguire via treno o su gomma, con ulteriore aggravio di costi.

Seguendo merce che deve essere consegnata nelle fabbriche di trasformazione in pianura Padana, quindi lavorata e poi rispedita, oltre i tempi di consegna e riconsegna estremamente dilatati, per le merci che devono tornare via mare il problema si replica, ma se la soluzione potrebbe essere quella di rispedirle attraversando le Alpi, ecco che emerge un’altra grana colpevolmente irrisolta – con la consueta scarsa lungimiranza, nessuno si aspettava un blocco del canale di Suez – cioè la chiusura del Fréjus. Questo passo rappresenta una piccola quota di traffico ferroviario, circa il 7%, attraverso il quale le aziende riuscivano a far transitare merci. Da quando è chiuso il passo, le aziende perdono circa 60/65 milioni di euro. Resterebbe il Gottardo, ma anche questo passo rimarrà chiuso fino a settembre con problemi conseguenti.

Quali vie alternative per il transito merci

La Svizzera, dove il 70% delle merci passa su rotaia, ha quintuplicato gli incentivi per il traffico ferroviario immediatamente dopo i problemi logistici al Gottardo. La chiusura del Fréjus (frana lato francese) e la semichiusura del Gottardo (deragliamento di un treno che ha danneggiato una delle due canne), non sono dipesi dall’Italia, ma dall’Italia dipende la mancata capacità di trovare soluzioni in tempi brevi. Per chiarire meglio questa problematica. Quando il Fréjus era in funzione, far passare un treno costava tre volte a causa della forte pendenza della sede ferrata. La necessità di doppia locomotiva e la velocità ridotta costava trenta euro a chilometro contro il costo di un treno in pianura di dieci euro a chilometro. La Torino Lione servirebbe anche a risolvere questo problema di competitività dei costi. Sta di fatto che la Svizzera si è fatta trovare pronta mentre in Italia i problemi della logistica sono affidati alla sorte.

Detto questo, le aziende fanno molta fatica a trovare vie alternative di transito e devono sottomettersi all’ineluttabile aumento di costi per sclerotizzazione della logistica. Quando si parla di grandi opere, non si può intendere opere come il ponte sullo Stretto o segmenti di interconnessione turistica, le grandi opere sono quelle che consentono il transito delle merci in velocità e sicurezza.

Effetto domino sulle scelte di politica economica della BCE

Tornando alle questioni di “pirateria” nel mar Rosso, il vero problema è l’incertezza. Se le aziende conoscessero i tempi di soluzione del problema logistico, pianificherebbero il lavoro con adeguata accortezza. Purtroppo gli Hiuty sono operativi, sufficientemente finanziati dall’Iran, impossibile sperare un esaurimento per sopravvenuta asfissia finanziaria, di conseguenza l’incertezza è sovrana. La crisi, dunque, è sufficientemente importante per ipotizzare un ulteriore rallentamento del raffreddamento dell’inflazione. Se in Europa continuano a non risolversi i problemi di Supply Chain, non si deve trascurare un effetto domino sulle scelte di politica economica della BCE che potrebbe decidere di non rischiare, tagliando con anticipo, i tassi di interesse.

Il traffico deviato dal mar Rosso, si calcola (al netto delle navi russe e cinesi che continuano a passare lo Stretto senza alcun problema) tra il 60 e l’80%. Questi numeri sono l’emblema del rischio elevato di quanto i prezzi delle merci potrebbero dilatarsi con effetti devastanti su tutti i mercati. La missione europea, in questo contesto, è da definire necessaria, perché se aumentano i prezzi aumenteranno anche i tassi nel medio termine.

L’aspetto economico, a volere essere onesti, è un aspetto del tutto secondario se volessimo soffermarci alle conseguenze dirette delle popolazioni che vivono nelle zone di guerra. Tuttavia è utile ricordare che le conseguenze economiche delle guerre impoveriscono lentamente intere platee di consumatori. Senza consumatori le aziende chiuderebbero. La chiusura delle aziende provoca ulteriore impoverimento di intere famiglie attraverso la piaga della disoccupazione. Senza aziende il Pil dei paesi crolla, il crollo del Pil crea insolvenza degli stati. In conclusione, non si deve cedere all’aridità del pragmatismo, ma non è opportuno condannare chi di pragmatismo deve vivere per consentire a tutti di poter dedicare SERENAMENTE un pensiero a chi soffre.