Silicon Valley Bank è fallita, inoltre, nella notte italiana, anche Signature Bank è stata chiusa dalle autorità finanziarie statunitensi. Lo scopo sarebbe quello di fermare sul nascere l’effetto “panico” che potrebbe minacciare la stabilità del sistema finanziario
di Luca Lippi
Quando depositiamo soldi in una banca, quest’ultima li investe allo scopo di guadagnare, oltre che ripagare gli interessi che riconosce al depositante e rientrare dei costi per la tenuta del deposito. Dunque compra asset, obbligazioni e azioni di altre aziende esattamente come faremmo noi per far fruttare i nostri risparmi, ma con volumi assai maggiori.
Il crack in breve
I clienti della Silicon Valley Bank sono per la maggior parte, start-up tecnologiche, aziende che hanno scelto la banca in questione negli anni 2020/2021. Il periodo cui facciamo riferimento coincide con aziende nuove collocatesi sul mercato attraverso “IPO o SPAC”, due procedure per quotarsi in Borsa affinché le azioni possano essere negoziate pubblicamente.
Queste aziende, hanno depositato i capitali raccolti sui Mercati nella Silicon Bank e l’istituto di credito ha provveduto a reinvestirli seguendo la logica già descritta, soprattutto puntando su bond a lunga scadenza. Quando la politica “tasso zero di interesse” è finita, e a causa dell’inflazione i tassi sono aumentati molto velocemente, il valore dei bond a lunga durata è cominciato a crollare.
Tutti sappiamo che più è lunga la durata residua di un bond, maggiormente è sensibile alla variazione dei tassi di interesse, considerando che i bond sono stati sottoscritti quando i tassi erano a zero, con l’inflazione e l’aumento dei tassi per combatterla, il valore dei bond nella pancia della banca è crollato. Per correre ai ripari, la tesoreria ha cominciato a vendere tutti gli asset vendibili provando anche a emettere nuove azioni sul Mercato.
Scatta l’alert
Gli investitori si sono subito accorti dell’anomalia; vendere asset e collocare nuove azioni non è mai un buon segnale. La conseguenza è stata un drenaggio di liquidità dalle casse della banca da parte degli investitori, soprattutto delle eccedenze superiori i 250 mila USD -la quota tutelata per i correntisti negli USA-.
Il risultato finale è stato la mancanza di liquidità, la crisi e l’inevitabile fallimento. C’è da considerare che molti dei clienti della Silicon Valley Bank, le startup di cui sopra, non sono aziende che producono flussi finanziari interessanti, anzi, la maggior parte non ne producono proprio, e i dollari depositati erano necessari per fronteggiare gli impegni a breve.
Reazione a catena
Questa crisi, ovviamente, potrebbe estendersi alle società clienti della banca, le quali potrebbero trovarsi in difficoltà nel fare fronte ai propri impegni e anche agli impegni con altre aziende, creando un forte stress per l’economia. Nessuno è in grado di stabilire se l’aumento dei tassi di interesse possa, nel breve, colpire gli asset di altre aziende di credito esposte su obbligazioni a lungo termine.
Sicuramente banchieri più avveduti avranno diversificato il rischio dei loro investimenti, tuttavia, l’aumento dei tassi è stato talmente repentino e inaspettato che potrebbe concretamente far prevedere altri fallimenti.
Che fine faranno le start up?
Le società vittime del fallimento, e non sono poche, ormai sono in forte crisi. Le start-up della Silicon Valley sono notoriamente aziende “brucia soldi”. Il loro core business è finalizzato ad organizzare temporaneamente soluzioni a problemi di cui non si conosceva l’esistenza, e la loro vita è finalizzata alla vendita della soluzione che coincide con il raggiungimento dello scopo sociale, quindi allo scioglimento della società stessa.
Allo stato dell’arte, queste start-up ormai hanno goduto e superato la bolla che si era creata sulla domanda di azioni e sarà complicato che altre banche sottoscrivano nuove emissioni, soprattutto in un periodo come quello attuale, dove tutti gli asset sono sotto pressione. Questo determinerà il fallimento delle aziende e anche la crisi occupazionale del settore.
Ci sarà una crisi di sistema?
Se questa domanda emerge sollecitata dal ricordo del fallimento di Lehman Brothers del 2008 e agli spettri che non sono ancora sopiti, la risposta è “no”. La bolla immobiliare dell’epoca e la crisi dei mutui subprime non hanno nulla a che vedere con la crisi e il fallimento della Silicon Valley Bank. Una riflessione, però, è necessaria.
Le regole contabili Usa consentono alle banche, con meno di 250 miliardi di attivo, di non considerare ai fini del calcolo dei coefficienti patrimoniali le perdite sui titoli disponibili per la vendita. Se a questo si sommano le perdite sui titoli immobilizzati, una banca può essere effettivamente insolvente pur essendo apparentemente in buona salute secondo i bilanci Usa.
Secondo questa valutazione, la Silicon Valley Bank non manifestava nessuna criticità. Sono stati gli investitori ad accorgersi di anomalie nell’operato dell’istituto di credito. C’è da ipotizzare che altre banche statunitensi, senza un concreto intervento delle autorità sulla loro valutazione patrimoniale, possano nascondere criticità, innescando instabilità al sistema.